domenica 28 ottobre 2007

Il futuro passa per il Farmer's Markets

C'è un grande problema nel mercato mondiale dei prodotti alimentari: tutto deve arrivare dappertutto, in nome del duplice imperativo, da una parte della crescita economica di chi produce, dall'altra del diritto da parte del consumatore ad avere a disposizione ogni bene immaginabile.
E' indubbiamente bello poter mangiare i pregiati formaggi alpini o una fetta di un formaggio olandese, così come è bello che nel mondo si possa comprare la pasta italiana, che è l'unica decente; ma il raggiungimento di quest'apparente forma di giustizia del mercato nasconde alcune gravi conseguenze. La prima è che un bene alimentare nato nella tradizione gastronomica di un luogo, per essere esportato, deve aumentare la propria produzione a livelli industriali tali da sopportare le richieste di un mercato via via sempre più ampio, conformemente alla legge della crescita. Questo lo porterà inevitabilmente ad uno scadimento della qualità, giacché alle tecniche artigianali si sostituiranno i criteri di convenienza e di compromesso tipici dell'industria alimentare, che ne sviliranno la genuinità in nome della trasportabilità a lungo raggio, della conservabilità e dell'omologazione dei gusti. La seconda conseguenza è che sul prezzo del prodotto incideranno sempre di più i costi di trasporto ed eventuali dazi doganali, ovvero che i trasporti aumenteranno di volume immettendo nell'aria enormi quantità di polveri sottili (i camion vanno a diesel e non sono affatto ecologici...), intasando le strade e incrementando quindi anche il rischio di incidenti; tra l'altro, maggiore è il raggio di esportazione, più passaggi ci sono: questo porta ad un impoverimento dei produttori a tutto vantaggio degli intermediari. La terza è che il prodotto e il territorio perderanno il loro rapporto esclusivo, intimo: un rapporto storicamente determinato, che quindi è studiabile con criteri di ricerca scientifici, ma che significa anche possibilità di sviluppo di un turismo legato al cibo.
Per questo bisognerebbe ricreare un legame saldo fra i produttori e i consumatori, che privilegiasse il rapporto diretto e fiduciario tipico delle produzioni artigianali (anche se molte produzioni saranno nel frattempo passate alla dimensione della piccola industria), la stagionalità e la tipicità delle materie prime di un luogo. Tutto questo si chiama farmer's market, letteralmente, dall'inglese, "mercato del fattore". Il farmer's market è un'idea sorta negli Stati Uniti, che in alcuni Paesi europei è già una realtà diffusa, mentre da noi -ovviamente- è ancora un miraggio. Però qualcosa comincia a muoversi.
A Monselice (PD) è stata inaugurata venerdì scorso la sede del Consorzio "Agrimons", un ottimo esempio italiano di farmer's market nato dall'impegno di una trentina di aziende; presenti -oltre il presidente del consorzio Mauro Bertin- il Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, il presidente di Coldiretti Padova Marco Calaon, il direttore Walter Luchetta, l'assessore al commercio del Comune di Monselice Bruno Cama e l'assessore provinciale all'agricoltura Luciano Salvò.
I farmer's markets sono stati istituiti per legge con la Finanziaria 2006. Quel che ora bisogna aspettarsi ragionevolmente è un impulso all'iniziativa, la quale, senza sottrarre grosse quote di mercato alla concorrenza, permetterebbe però di creare un mercato locale equo, abbassando i costi al consumatore ma aumentando i guadagni al produttore. Attualmente, per inquadrare normativamente i farmer's markets, è in corso da parte del Governo un accordo con l'ANCI (Ass. Naz. Comuni Italiani). Comprare locale, specialmente se si può farlo direttamente dai produttori, significa sapere ciò che si mangia. Inoltre, è un'iniziativa etica e responsabile che riporta il commercio nel solco di una giustizia sociale dalla quale troppo spesso anche l'industria alimentare si allontana.

(Fonte: GreenPlanet)

Per approfondire:
www.farmersmarket.it, il portale italiano dei farmer's markets
Per rendersi conto dell'ampiezza del fenomeno negli Stati Uniti: qui e qui
Per un caso italiano a Taranto leggi qui, qui (raccontata da Cremona), qui e qui (in PDF, con interessanti approfondimenti sul caso tarantino)

giovedì 25 ottobre 2007

Greepeace a favore dell'eolico

Vi rigiriamo una breve notizia diffusa da Greenpeace Italia, ritenendo che il tema dell'energia eolica, al centro di molte e controverse discussioni, sia tutt'altro che facile da chiarire. In attesa di occuparcene anche noi di Yogurt, vi lasciamo farvi un'idea di quanto sostiene la più importante associazione internazionale per la tutela dell'ambiente.


Roma, Italia — Greenpeace lancia oggi due video pro energia eolica. Realizzati dal regista Francesco Cabras e prodotti da Greenpeace in collaborazione con Ganga Film, i due filmati - disponibili su You Tube - sono stati girati in Toscana e in Sardegna. Per far capire che le pale eoliche non sono solo utili, ma possono anche essere belle. E in sintonia col paesaggio.

Una delle principali obiezioni sull'eolico riguarda l'impatto paesaggistico degli impianti e delle pale. Greenpeace presenta oggi questi due video girati rispettivamente a Scansano in Toscana e ad Aggius, in Sardegna, per far capire che gli impianti eolici non solo sono un passaggio obbligato per il futuro energetico del nostro Paese, ma possono integrarsi perfettamente col paesaggio.



(Fonte: Greenpeace Italia)

P. S.: i video sono visibili anche direttamente dalla pagina sopra riportata

mercoledì 24 ottobre 2007

Curiosità... al cacao

L’albero del cacao non esisteva nel Vecchio Mondo e gli europei lo conobbero solo dopo la scoperta dell’America. Il primo fu lo stesso Cristoforo Colombo, che però non ne rimase particolarmente impressionato, lo colpì solo il fatto che gli indigeni americani ne usassero i semi come moneta.
Quando nel 1519 Hernando Cortez sbarcò nel Messico, il cioccolato era la bevanda nazionale degli Aztechi, ed era però amara e molto, molto piccante, a causa dell’aggiunta di peperoncino. Non fu quindi subito apprezzata dagli spagnoli.
In seguito, alla fine del Cinquecento, eliminato il peperoncino e dolcificato con lo zucchero, il cioccolato conquistò la Spagna.
A quell’epoca la pasta del cioccolato, a base di cacao pestato, zucchero e spezie come vaniglia e cannella (Per essere consumata veniva poi diluita con acqua calda), era preparata in gran segreto nelle colonie Americane e, per mare, sfidando i pirati, giungeva in Europa.
In breve la cioccolata divenne una bevanda insostituibile. Addirittura, in certe occasioni fu motivo di scontro con la chiesa cattolica: durante le funzioni religiose era un andirivieni di ancelle che entravano in chiesa per portare cioccolata calda alle dame che ascoltavano le prediche, tanto che un vescovo minacciò di scomunica chiunque avesse consumato la bevanda nei luoghi sacri. Poi sorse anche la questione, risolta in seguito a molte diatribe, se la cioccolata rompesse o meno il digiuno, cioè se potesse essere consumata prima dell’Eucarestia.
Per circa tre secoli la cioccolata fu unicamente una bevanda, soltanto nell’800 comparvero tavolette e cioccolatini, ed ancora dopo le uova di cioccolato.

venerdì 19 ottobre 2007

La Cooperativa de Trabajadores Rurales in Argentina

"La cooperativa è la casa di ciascuno dei vicini e dei compagni che partecipano alla cooperativa e che producono”

(Zuray, socio della Cooperativa).

Si riconoscono innanzi tutto come trabajadores, lavoratori, perché "non possediamo né tenute agricole né imprese, né abbiamo un lavoro nella pubblica amministrazione né viviamo del lavoro altrui, se non del nostro stesso sforzo (…) che è libero, senza padroni, (…) dignitoso, privo di sfruttamento, è condiviso, è per tutti . Questo esprime la parola "cooperativa". Lavoriamo nei campi, nell'allevamento e nella lotta per la terra".
La Cooperativa de Trabajadores Rurales coinvolge una ventina di famiglie che si riuniscono in assemblea per organizzare laboratori di educazione popolare e gruppi di lavoro: c'è un gruppo per l'orto, uno per la commercializzazione, uno d'ingegneria; di quest’ultimo gruppo fa parte Ramòn:“sento di vivere in un modo diverso (…) producendo autonomamente. Per esempio, sto vendendo del latte, vado di casa in casa con una sola vacca. Salgo nelle case per venderne un litro, due litri - quello che la vacca mi dà - e vivo di questo sostentamento"; i prodotti della cooperativa vengono venduti sia ad un gruppo di consumatori organizzato in rete che presso la sede stessa della cooperativa, così come nei mercati e nei piccoli supermercati.

Il sistema di produzione ed anche le scelte di vita dei compagni della Cooperativa sono animati da principi proposti come alternative al modello di produzione e di vita capitalistico: dai gruppi di studio per elevare il livello generalmente scadente di scolarizzazione dei bambini, alla “giornata del bambino”- perché deve esserci un tempo per il gioco e per il rapporto genitori-figli -, dalla diffusione del patrimonio di cultura popolare attraverso i balli tradizionali all’uso di rimedi naturali tradizionali in sostituzione dei farmaci industriali.

Tuttavia il sistema è ostacolato da gravi problemi, nei quali si concretizza la contrapposizione tra agriecologia ed agrinegozio (il capitalismo nel settore primario): in primo luogo i prodotti della cooperativa hanno costi più alti rispetto a quelli delle grandi aziende, in secondo luogo non riescono a soddisfare il fabbisogno di grossi quantitativi di prodotto espresso dai grandi rivenditori (per es. supermercati); a ciò si aggiungono i problemi derivanti dalla scarsa fertilità della terra, legata alla scomparsa dello strato più fertile e più superficiale di humus, la cosiddetta tierra negra.

Il socialismo dei compagni della Cooperativa parte dalla realtà concreta, si costruisce parlando coi propri vicini, discutendo dei problemi quotidiani: niente illuminazione, né sanità, strade disastrate ed una scuola lontana 3 chilometri da percorrere a piedi; in un passaggio storico caratterizzato dalla graduale scomparsa della piccola proprietà e da fenomeni di abbandono delle campagne e di inurbamento, la Cooperativa ha "una consegna molto importante, che è quella di volgersi di nuovo verso il lavoro nei campi".

(Fonte: Biodiversidad)

giovedì 18 ottobre 2007

Per i nostri fiumi, per la nostra terra, per il nostro futuro

Vale la pena di soffermarsi su alcune frasi contenute in una dichiarazione espressa dall'Assemblea Regionale Argentina-Uruguay, che si è riunita lo scorso 7 ottobre nella città di Nueva Palmira. Il mondo latinoamericano usa termini ed espressioni che l'Europa non riesce a far entrare nella propria consuetudine. Le popolazioni del Sud America hanno nella pelle un legame viscerale con la terra e un istinto carnale a non far calpestare da altri la propria libertà. Noialtri, che ci facciamo forti di una storia plurimillenaria e dell'invenzione della democrazia e dei diritti umani, non riusciamo a fare altrettanto.
"Non possiamo accettare un modello fondato sulla devastazione e sul continuo saccheggio dei nostri beni naturali. Perché la propagazione delle monocoltivazioni, la quotidiana forestierizzazione della terra, e l'installazione di industrie inquinanti nella regione, stanno causando danni irreparabili, al di là dell'assoggettamento a politiche degradanti che non hanno nulla a che spartire col nostro modo di vivere, con la nostra dignità, col nostro irrinunciabile impegno a costruire un mondo che contempli i bisogni e i desideri di tutti. Perché imprese come Botnia, Ence, Isusa e Stora Enso altro non sono che l'emblema di un capitalismo feroce e irrazionale che ignora frontiere e sovranità. Perché siamo sostenitori di un modello regionale che rispetta la vita, la dignità umana e il lavoro".
Dovremmo probabilmente riflettere su questa intransigenza dei popoli latinoamericani a farsi dominare, a farsi espropriare tanto le terre quanto la dignità e il futuro. Perché la speranza non si ipoteca con i falsi sogni delle multinazionali, né si mette all'asta nelle Borse del mondo.

mercoledì 10 ottobre 2007

Alla ricerca della biodiversità perduta

I panda, gli elefanti, le balene, i leoni... Sono tutti animali che fanno parte dell’immaginario comune come specie a rischio d’estinzione. Chi, almeno una volta nella vita, non si è soffermato a pensare con malinconia: “Come sarebbe brutto un mondo senza leoni nelle savane e senza balene nel mare…” ?
Davvero commovente.
Scommetto però che nessuno si è mai fermato a pensare a come sarebbe brutto un mondo senza ravanelli nell’insalata e senza rosmarino sull’arrosto…
C’è poco da ridere: anche alcuni tipi di piante sono a rischio d’estinzione e, paradossalmente, spesso si tratta delle specie di uso più comune; ma l’uomo, da buon primate risolutore di problemi, ha trovato una soluzione anche per questo, ovvero le banche dei semi… (e per semi si intendono proprio i semi delle piante!!)
Il fenomeno si è diffuso negli ultimi anni in tutto il mondo, anche in Italia; a Pavia, nel 2005 è nata la Lombardy Seed Bank (Lsb), che si occupa della conservazione della flora spontanea attraverso la custodia di semi delle piante e della vegetazione in generale. Si calcola, infatti, che entro il 2050 almeno 100.000 delle circa 300.000 specie di piante superiori viventi sulla terra potrebbero estinguersi, un migliaio in Italia e qualche centinaio solo in Lombardia.
In india, invece, nel 2006 nel Distretto di Chamarajnagar, Stato del Karnataka, si è svolta la Festa internazionale dei semi, organizzata per inaugurare la Banca dei semi originari, e soprattutto per far comprendere ai contadini che solo coltivando i loro semi originari senza pesticidi, erbicidi e concimi chimici, potranno uscire dalla spirale della dipendenza dalle multinazionali e dall'usura e tornare ad essere autosufficienti.
Nel tentativo di conservare la biodiversità tanto minacciata, a volte si percorrono vie che solo fino a qualche anno fa sarebbero parse paranoie da film di fantascienza catastrofico: nelle isole Svalbard, in Norvegia, circa un anno fa sono state gettate le basi per la realizzazione di un deposito di sementi scavato in una montagna artica. Il deposito dovrebbe garantire la sopravvivenza a lungo termine delle colture alimentari essenziali nel mondo, seguendo le linee guida di una più ampia strategia che ha l’obiettivo di tutelare le risorse alimentari collezionando sementi provenienti da ogni angolo del globo.

martedì 9 ottobre 2007

Farmer's market: forse è la volta buona

C'è un grande problema nel mercato mondiale dei prodotti alimentari: tutto deve arrivare dappertutto, in nome del duplice imperativo, da una parte della crescita economica di chi produce, dall'altra del diritto da parte del consumatore ad avere a disposizione ogni bene immaginabile.
E' indubbiamente bello poter mangiare i pregiati formaggi alpini o una fetta di un formaggio olandese, così come è bello che nel mondo si possa comprare la pasta italiana, che è l'unica decente; ma il raggiungimento di quest'apparente forma di giustizia del mercato nasconde alcune gravi conseguenze. La prima è che un bene alimentare nato nella tradizione gastronomica di un luogo, per essere esportato, deve aumentare la propria produzione a livelli industriali tali da sopportare le richieste di un mercato via via sempre più ampio, conformemente alla legge della crescita. Questo lo porterà inevitabilmente ad uno scadimento della qualità, giacché alle tecniche artigianali si sostituiranno i criteri di convenienza e di compromesso tipici dell'industria alimentare, che ne sviliranno la genuinità in nome della trasportabilità a lungo raggio, della conservabilità e dell'omologazione dei gusti. La seconda conseguenza è che sul prezzo del prodotto incideranno sempre di più i costi di trasporto ed eventuali dazi doganali, ovvero che i trasporti aumenteranno di volume immettendo nell'aria enormi quantità di polveri sottili (i camion vanno a diesel e non sono affatto ecologici...), intasando le strade e incrementando quindi anche il rischio di incidenti; tra l'altro, maggiore è il raggio di esportazione, più passaggi ci sono: questo porta ad un impoverimento dei produttori a tutto vantaggio degli intermediari. La terza è che il prodotto e il territorio perderanno il loro rapporto esclusivo, intimo: un rapporto storicamente determinato, che quindi è studiabile con criteri di ricerca scientifici, ma che significa anche possibilità di sviluppo di un turismo legato al cibo.
Per questo bisognerebbe ricreare un legame saldo fra i produttori e i consumatori, che privilegiasse il rapporto diretto e fiduciario tipico delle produzioni artigianali (anche se molte produzioni saranno nel frattempo passate alla dimensione della piccola industria), la stagionalità e la tipicità delle materie prime di un luogo. Tutto questo si chiama farmer's market, letteralmente, dall'inglese, "mercato del fattore". Il farmer's market è un'idea sorta negli Stati Uniti, che in alcuni Paesi europei è già una realtà diffusa, mentre da noi -ovviamente- è ancora un miraggio. Però qualcosa comincia a muoversi.
A Monselice (PD) è stata inaugurata venerdì scorso la sede del Consorzio "Agrimons", un ottimo esempio italiano di farmer's market nato dall'impegno di una trentina di aziende; presenti -oltre il presidente del consorzio Mauro Bertin- il Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, il presidente di Coldiretti Padova Marco Calaon, il direttore Walter Luchetta, l'assessore al commercio del Comune di Monselice Bruno Cama e l'assessore provinciale all'agricoltura Luciano Salvò.
I farmer's markets sono stati istituiti per legge con la Finanziaria 2006. Quel che ora bisogna aspettarsi ragionevolmente è un impulso all'iniziativa, la quale, senza sottrarre grosse quote di mercato alla concorrenza, permetterebbe però di creare un mercato locale equo, abbassando i costi al consumatore ma aumentando i guadagni al produttore. Attualmente, per inquadrare normativamente i farmer's markets, è in corso da parte del Governo un accordo con l'ANCI (Ass. Naz. Comuni Italiani). Comprare locale, specialmente se si può farlo direttamente dai produttori, significa sapere ciò che si mangia. Inoltre, è un'iniziativa etica e responsabile che riporta il commercio nel solco di una giustizia sociale dalla quale troppo spesso anche l'industria alimentare si allontana.

(Fonte: GreenPlanet)

Per approfondire:
www.farmersmarket.it, il portale italiano dei farmer's markets
Per rendersi conto dell'ampiezza del fenomeno negli Stati Uniti: qui e qui
Per un caso italiano a Taranto leggi qui

domenica 7 ottobre 2007

Contro l'iperconsumo di acqua minerale imbottigliata

Rigiriamo ai nostri lettori l'appello di Altreconomia, che si è trasformato in campagna di sensibilizzazione ed ora si avvia a diventare proposta di legge.

Noi italiani siamo i primi consumatori al mondo di acque minerali.
Ogni anno ne beviamo quasi 190 litri a testa, in media. E fuori casa, nei locali pubblici, beviamo quasi esclusivamente acqua in bottiglia. Spesso sono gli stessi gestori che, quando chiediamo una brocca o un bicchiere di acqua di rubinetto, ci spiegano di non potercela servire, anche se nessuna legge lo vieta.

La campagna "Imbrocchiamola!" vi chiede di segnalare i ristoranti, i locali, le pasticcerie, i bar che servono l'acqua di rubinetto e di indicarci quelli che non lo fanno.

Uno strumento per sensibilizzare all'uso dell'acqua di rubinetto che è buona, controllata, comoda (arriva in casa) e poco costosa.

Contestualmente, Altreconomia ha avviato anche una campagna contro le pubblicità riguardanti acque imbottigliate. Per comprendere lo spaventoso giro di affari che ruota intorno ad un litro d'acqua minerale, basti dire che gli imbottigliatori, nel 2005, hanno speso la bellezza di 379 milioni di euro in pubblicità. Ne hanno bisogno perché la concorrenza, l'acqua dell'acquedotto, è molto competitiva, e se il pubblico no venisse martellato da tanti spot ne comprerebbe molta di meno. Di fatto l’acqua in bottiglia fa concorrenza a un bene comune, solo che -a differenza dei privati- gli acquedotti non investono una lira per pubblicizzare il proprio servizio.

Senza pensare di ridurre la libertà di produrre e vendere acqua minerale, non si potrebbe invece legittimamente pensare di limitarne l’invadenza pubblicitaria?

Per difendere l’acqua degli acquedotti (buona, controllata, comoda e poco costosa) e garantirle un futuro forse è necessario limitare l’invadenza pubblicitaria delle acque minerali.

Mettiamola fuori legge. La pubblicità, non l’acqua minerale.
Voi che ne dite?


(Da: Altreconomia)

Per approfondire (dallo stesso sito):
L'acqua è gratis
Re e regine della bottiglia
Più spot, più consumi
Rubinetto VS bottiglia
Mettetela in brocca (di Camilla Lattanzi)

Per seguire la vicenda fra Altreconomia e Gruppo Ferrarelle: Davide contro Golia (di Miriam Giovanzana)

Il biologico francese ha bisogno di aiuti

Si è riunito venerdì scorso il primo Congresso nazionale francese dedicato al biologico, che Oltralpe conta solo l'1,8% della superficie coltivata e ha un andamento di mercato oramai stagnante. Il gruppo di lavoro prevede di raggiungere il 6% delle aree coltivate entro il 2012 e il 20% entro il 2020. Il problema, però, è che l'agricoltura biologica è una metodologia colturale nata e cresciuta nel solco dell'economia di mercato, e quindi non ne elimina tutte le storture. Per esempio il grave impatto ambientale che il sistema dei trasporti alimentari ha, oppure le filiere troppo lunghe; nessuno dei due problemi viene in realtà affrontato dal biologico, semplicemente perché esso si dedica esclusivamente alle tecniche colturali, e non anche all'economia, alla società con le sue abitudini di consumo, o al mondo politico e intellettuale.
Ciò che occorre fare, piuttosto, è tentare l'azzardo di porsi la domanda con cui mettere in discussione proprio ciò che diamo per scontato: possiamo cambiare il sistema produttivo, della distribuzione e della vendita? Possiamo ritornare ad una produzione ed un consumo localizzati, radicati nelle specificità del territorio? Possiamo realizzare un'agricoltura più giusta?
Fin quando si resta nell'ottica dell'economia deregolata in cui viviamo, infatti, si pensa percorrendo un circolo vizioso: questo non va bene, come posso fare? Lo incremento, lo sviluppo, lo accresco. Quando c'è qualcosa che non va, come si fa con un malato che non risponde bene alle cure, si aumenta il dosaggio; peggiora? Lo si aumenta ancora. Ciò che non si capisce è che è il farmaco stesso a farlo peggiorare, per cui bisognerebbe semplicemente sospenderlo. Questo è l'azzardo, mettendo in discussione quel che riteniamo giusto o irrinunciabile e immodificabile.
Ovviamente è un bene che i nostri Paesi aumentino la quota di agricoltura destinata alle produzioni biologiche; è anche ora di smettere di credere, tuttavia, che questo ci metterà al sicuro dagli altri numerosi problemi che il nostro stesso sistema economico e produttivo crea.
Per cui non resta che pensare il cambiamento come un'alternativa praticabile.


(Fonte: Greenplanet)

Sarkozy interroga i francesi sull'ambiente

di Francesco Panzetti

Non ci siamo abituati, noialtri, a queste consultazioni, fatto sta che Nicolas Sarkozy sta per iniziare, da domani, una settimana di interrogazioni alla cittadinanza francese in merito a tre temi fondamentali: agricoltura biologica, OGM e pesticidi, gas serra.
"Gli automobilisti francesi sono disposti ad accettare dei limiti di velocità più restrittivi sulle strade ed autostrade per ridurre le emissioni di Co2?", "I consumatori francesi sono pronti a spendere di più per il cibo nei prossimi 13 anni, per consentire di sviluppare delle coltivazioni biologiche?", "Gli agricoltori francesi sono pronti a bloccaqre l'utilizzo di pesticidi?". Queste sono alcuni dei quesiti a cui i cittadini francesi dovranno rispondere.
Checché alcuni avversari politici ne dicano, si tratta di un passaggio importante nella politica di una nazione, che presuppone scelte ampie e la consapevolezza di poter incidere negativamente sulle ricchezze di alcune categorie di produttori, oltre che richidere una presa di coscienza anche da parte dei cittadini.
Noi prendiamo atto di una cosa: che da noi si parla molto nella vetrina politica, ma non si vedono fatti, mentre l'Italia sembra aver sempre più bisogno di un nuovo Gracco che riformi radicalmente il comparto agrario e zootecnico. Il vituperato Sarkozy, che ha pur sempre il "marchio d'infamia" di appartenere alla destra, fa ciò che Pecoraro Scanio, da ministro, non ha mai fatto.
Delle due l'una: o la destra d'Oltralpe non è come la nostra, o la nostra sinistra è come la nostra destra. Tertium non datur.

(fonte: Greenplanet)

Agricoltura insostenibile: le origini del problema


L’alternativa “agricoltura biologica”

di Enrica

Agricoltura biologica, ecologica, alternativa, sono sinonimi utilizzati per esprimere un medesimo concetto: fare agricoltura applicando tecniche agronomiche che prendono a modello i ritmi della natura e le sue leggi.
Il modello di sviluppo delle società occidentali, se osservato in un’ottica di lungo periodo, risulta insostenibile per le naturali capacità produttive dei suoli agrari. Abbiamo infatti assistito, dal dopoguerra ad oggi, da un lato ai processi di urbanizzazione e conseguente edificazione che hanno portato ad una contrazione della SAU (Superficie Agricola Utilizzabile) totale, e dall’altro ad un aumento della richiesta di derrate alimentari per far fronte all’incremento demografico e al crescente benessere. Ed effettivamente, nonostante la SAU sia stata sensibilmente ridotta, la produttività per unità di ettaro è andata aumentando. L’agricoltura dei Paesi Industrializzati è riuscita a supplire all’antinomia “diminuzione superficie” – “aumento prodotti della terra”, grazie all’intensificazione della pratica agricola e all’introduzione di input all’interno delle aziende agrarie. Per input si intendono tutte quelle immissioni di energia e di risorse (sostanze chimiche di sintesi, macchine) all’interno di un’unità produttiva agraria, che vanno a sommarsi a quelle energetiche naturali, quali la trasformazione dell’energia solare in sostanza organica e il sostentamento fornito dagli elementi minerali e organici presenti nella terra.
Il paradosso sostanziale di questa realtà è dunque la soluzione a cui si è pervenuti per gestirla, una soluzione che appaga le esigenze dell’uomo, ma sterilizza la natura, poiché intensificare le pratiche agricole significa di fatto sfruttare le risorse del terreno e quindi inesorabilmente impoverirlo di proprietà chimiche e biologiche.
In un quadro di interventi che, soprattutto in passato, sono stati così poco attenti alle risposte dell’ecosistema, si inserisce l’alternativa rappresentata dall’agricoltura biologica, che mira ad ottimizzare il rapporto diretto ed inevitabile tra l’agricoltura e l’ambiente; non dimentichiamo che l’agricoltura è la forma di utilizzazione del territorio più estesa e che agli agricoltori è affidato il vitale compito di occuparsi del territorio e di tutte le sue risorse.
La ricerca in questo settore, si pone un obiettivo di non facile acquisizione, che è quello di selezionare varietà resistenti a fitofagi e fitopatogeni, salutari, di buon sapore, che sviluppino produzioni quantitativamente apprezzabili per impostare un discorso economicamente valido, e il tutto senza inquinare.

Spesso l’aspetto più difficile da risolvere è proprio quello che riguarda il reddito. Le colture biologiche portano all’ottenimento di quantitativi di produzione per ovvie ragioni inferiori a quelli dell’agricoltura tradizionale – nella maggior parte dei casi - e forse è anche per questo che sono per ora una realtà in minoranza: in Italia, la superficie interessata ad agricoltura biologica risulta pari a 1.052.002 ettari, vale a dire l’8% della SAU totale (fonte: SINAB 2003).

FALCE E FORNELLO



di Francesco Panzetti


Entro in un supermercato, e mi dirigo verso il bancone degli yogurt: un’enorme fauce aperta butta fuori il freddo per una quindicina di metri, consumando una quantità enorme di corrente per produrre calore che si disperde in buona parte nell’ambiente. Se avesse degli sportelli, consumerebbe molto meno.
Torniamo allo yogurt, prodotto, per esempio, con latte tedesco perchè le mucche italiane fanno il latte ma sono ignoranti e non conosco l’economia aziendale, mentre le colleghe tedesche già marciano verso Bruxelles inviperite, sicché bisogna proprio convincere le nostre a produrne di meno... Autobotti tedesche viaggiano verso l’Italia per darci quel latte che abbiamo già, percorrendo chilometri e bruciando benzina. Benzina… Ah, petrolio! Cadaveri preistorici. I camion viaggiano con gasolio per produrre il quale le multinazionali (anche l’ENI, anche l’AGIP) calpestano i diritti delle popolazioni povere del mondo e fomentano guerre. Teste di uomini, donne e bambini rotolano, ma noi vogliamo comunque trasportare latte tedesco per sostituirlo a quello che abbiamo già. Che meraviglia. Mi viene lo schifo dello yogurt e passo avanti. Penso: se compro ortaggi faccio una colazione più sana, leggera e non faccio torto a nessuno.
Compro dei pomidoro. Belli, vengono dalla Spagna. E i nostri? Dove vanno? Non bastano? Ma se i contadini i pomidoro li schiacciano coi trattori perché nessuno li compra? E quanti idrocarburi sono stati immessi nell’aria per far viaggiare quei pomidoro dalla Spagna all’Italia? Rotolano altre teste: penso a pozzi incendiati nel Kuwait e all’Iraq, e mi cominciano a girare di brutto. Ah, ma no… vedi che ci sono anche quelli italiani? Sono della Campania, costavano 30 centesimi al chilo dal contadino, a me 2 euro; sono arrivati in Sicilia o in Emilia e messi in una vaschetta di plastica, per poi tornare indietro da dove erano partiti (e altri soldini a Benetton e alle compagnie petrolifere). La prossima volta giuro che i pomidoro li compro dal contadino sotto casa…Ma io abito nel Napoletano: vi pare una buona idea comprare gli ortaggi o la frutta delle mie campagne, dove la camorra incendia ogni giorno cumuli di rifiuti? Dove il terreno, l’aria e l’acqua sono carichi di piombo, arsenico, cianuro, mercurio, bario e amianto? Dove la diossina nel sangue è 30 volte superiore alla soglia massima fissata dalla legge? Faccio la fame io, e faccia la fame pure il contadino.
Mi servirebbe anche un chilo di pere. Pere. Nel territorio di un solo paesino, nelle campagne molisane, una volta ce n’erano più di venti varietà. Me l’hanno detto i contadini. Oggi sul mercato resistono solo poche qualità: che ci guadagna il contadino a vendere tre cassette di pere che produce solo lui? Beh, quelle tre cassette si chiamano biodiversità. È la natura più il contadino moltiplicato per centinaia di anni e decine di innesti e di incroci. Organismi Geneticamente Modificati a tutti gli effetti, però col bollino di Madre Natura: niente microscopi, ma solo innesti per talea. Tuttavia, siccome quasi nessuno le produce più, tutte quelle varietà si perdono insieme ai vecchi che se ne vanno al Creatore. Mi sento un ladro a comprare ‘sta roba che viene da così lontano, poso la busta, getto il guanto e passo oltre.
Ci sono delle fette biscottate. Ammazzerò mica qualcuno pure con queste? Leggo gli ingredienti in cerca di indizi di atti criminosi: niente, solo farine maltate. Poi mi sorge il dubbio: ma quali farine? La questione del grano non è così semplice: i contadini coltivavano il loro grano, quello che la Natura gli forniva da millenni e poi ad un certo punto sono arrivati dei signori che hanno detto loro “comprate questi semi, sono tutt’un’altra cosa”. Ora possono coltivare solo quelli, che sono sterili e li obbligano ogni anno ad acquistarne di nuovi… Sei indiano ed i tuoi coltivano da sempre l’albero del Neem, poi un giorno arriva la multinazionale W. R. Grace e lo brevetta…tu, che ce l’hai sotto casa da un secolo, ora per coltivarlo devi pagare. Sempre in India, la Monsanto ruba i semi ai contadini e brevetta la farina ottenuta da questo grano come anche l’impasto e «biscotti o altro, prodotto dalla farina…»…Biopirateria ! Rinuncio alle fette biscottate.
Carne? Neanche a parlarne. Gonfiano i manzi e le vacche per riempire i loro muscoli d’acqua, per aumentarne il peso ed il relativo guadagno. Ma se metti una bistecca da 100 grammi in padella e te ne ritrovi 50 a bagnomaria, c’è qualcosa che non và. Non potendo reclamare presso le bestie - le quali, poverine, per essere state così gonfiate e spremute, sviluppano un sacco di malattie i cui costi ricadono su di noi -, andrò sotto casa degli allevatori con una brocca di brodaglia vaccina in mano: “ridatemi i soldi!”.
Esco dal supermercato a mani vuote e con la coda fra le gambe. Che faccio, non mangio più? Non c’è un altro modo? Beh…qualcosa forse si può fare: informarsi, coltivare la propria consapevolezza e orientare le scelte in armonia con un principio etico di responsabilità e di giustizia. E poi parlarne con gli amici, mostrare loro certe assurdità del mercato, trasformando la propria rabbia in una dialettica contagiosa.
Noi ci vogliamo provare. Voi prestateci orecchio.

America Latina: la lotta per la terra

Da: ANRed (Agencia de Noticias Red Accion)

In vari punti dell’America Latina si conduce una lotta di rivendicazione sulle risorse naturali, che interessa diverse fasce della popolazione, dai popoli indigeni ai movimenti territoriali urbani. Ciascuna con le proprie differenze, denunciano diversi aspetti di uno stesso problema: la speculazione economica, l’esclusione sociale, la disoccupazione, l’oppressione e la emarginazione; sono processi di oppressione che cominciarono ad annientarli, a cancellare le loro tracce, la loro cultura, i loro valori. Oggi tali popolazioni vanno a far parte, poco a poco, del processo di resistenza che portano avanti i popoli originari di tutta l’America Latina, che, in alcuni Paesi come l’Ecuador e la Bolivia, dai quali le lotte sono state capeggiate, hanno visto cadere perfino i propri presidenti.

Alcuni movimenti sono nati negli anni ’90, denunciando la vendita indiscriminata delle terre e la consegna delle risorse petrolifere nelle mani dei privati. A metà della decade di Menem, poi, sono riusciti, insieme alle varie comunità, a farsi riconoscere i loro diritti come popoli nella riformata costituzione nazionale.

La lotta per la terra ha una radice assai profonda nella visione cosmica dei popoli nativi, in cui è la terra la padrona degli uomini, lo spazio nel quale si rende possibile lo sviluppo della cultura comunitaria nel presente come nel futuro; include tutte le risorse naturali, sia materiali che spirituali: la terra come madre della vita. Per i movimenti urbani, invece, non c’è un grado così simbolico di valori nella lotta alla terra, ma le radici sono simili: l’esclusione e la disoccupazione non fecero che aumentare le fasce di povertà che si ammassavano ai margini delle grandi città, la mancanza di politiche pubbliche, sanità, educazione che furono all’origine dei movimenti dei disoccupati. L’impossibilità di accedere ad un tenore di vita dignitoso provoca oggi forti tensioni, con occupazioni di terre nelle quali la consegna è occupare, resistere, costruire.

Purtroppo, a fronte di tante lotte si registra continuamente la repressione da parte dello Stato, che non ammette che il popolo reclami i suoi diritti. L’occupazione delle terre urbane e la lotta per la proprietà comunitaria toccano le radici profonde degli interessi economici di questo sistema. Così le persecuzioni e le manganellate vengono ripartite egualmente fra studenti, insegnanti, disoccupati, lavoratori e movimenti indigeni, mentre le resistenze vanno aumentando e s’incontrano su vie comuni.

L'America Latina agricola si muove contro lo sfruttamento minerario

E' di questi giorni (5 ottobre) la notizia che il 18 settembre in Ecuador, nella città di Loja, si è tenuto un incontro delle associazioni per la vita e contro lo sfruttamento minerario a grande scala fatto dalle società transnazionali. L'assemblea ha prodotto considerazioni e risoluzioni di grande importanza, che permettono di comprendere la gravità del problema nell'America Latina ma anche le difficoltà patite a causa di questo fenomeno da parte dei contadini, nonché il loro desiderio di riscatto e la capacità che hanno di proporre una diversa programmazione economica basata su uno sfruttamento del territorio ecologico e sostenibile.
Le popolazioni locali hanno dovuto subire le alterazioni alla loro tradizionale economia dovute all'arrivo dei grandi gruppi industriali che hanno sottratto braccia all'agricoltura senza aver offerto prospettive migliori, nonché inquinando e compromettendo il territorio con le proprie attività, che hanno spesso una portata gigantesca. Le comunità sono state disgregate, e i gruppi di protesta sono stati criminalizzati e perseguitati. Le conseguenze nefaste delle attività esplorative od estrattive hanno investito la sfera dei diritti collettivi, la stabilità dei bacini idrici, la biodiversità, la produzione agricola e in special modo granaria in tutto il continente.
Come al solito, l'America Latina dimostra di riuscire a pensare ai propri problemi in una prospettiva continentale, unitaria, che è certamente una delle più grandi risorse umane della politica e dell'azione civica e sociale di questa parte del mondo; al contrario, l'Europa, che ha innescato oramai da mezzo secolo un processo di unificazione dall'alto, non riesce ad attivare analoghe dinamiche anche dal basso, dove la secolare storia di divisioni etniche o nazionali ha la prevalenza sui tratti comuni.
Per il momento le associazioni di protesta sono riuscite a fermare alcune delle attività minerarie; del resto, queste ultime costituiscono una realtà molto antica nel continente, per cui anche la coscienza e la sensibilità delle popolazioni a questo tema è alta. Ciò ha portato, per esempio, il 18 settembre, in Perù, ad un voto popolare attraverso il quale i cittadini dell'area interessata hanno espresso il loro dissenso alla costruzione di un nuovo impianto minerario, sebbene il governo locale ha dichiarato di voler delegittimare questa espressione di volontà popolare.
Le associazioni chiedono la nazionalizzazione delle risorse naturali strategiche, al fine di sottrarle allo sfruttamento da parte delle società transnazionali, che esercitano attività completamente deregolamentate; l'impulso ad una politica nazionale incentrata sulla sovranità alimentare ed un'economia solidale ed ecologica legata alle risorse rinnovabili del territorio; la sospensione delle attività minerarie; dichiarare il Sud dell'Ecuador in mobilitazione permanente, il che significa fare campagne di sensibilizzazione verso la popolazione, sviluppare il mandato sociale per la costituente, includendo anche una discussione democratica sul problema; e fare del Fronte di Resistenza Sud una piattaforma per il recupero della sovranità popolare basata su solidarietà, equità e uso sostenibile delle fonti naturali; infine, mobilitare a livello subcontinentale le altre associazioni che combattono lo stesso problema.
Ancora una volta le popolazioni povere vengono fatte oggetto di politiche aggressive da parte di compagnie private con la connivenza degli organi dello Stato, senza essere consultate né rese partecipi. Ancora una volta l'agricoltura paga lo scotto nei confronti di altri tipi di attività produttive.

sabato 6 ottobre 2007

Da martedì 5 contadini sardi praticano lo sciopero della fame

Hanno avuto accesso ad un mutuo a tasso stanziato grazie ad una legge della loro Regione (la 44/88); i politici italiani avevano pensato bene di non notificarla all'UE, pertanto, quando anni dopo questo è stato fatto, la legge è stata dichiarata illegale dall'Unione europea e l'Italia è obbligata a recuperare presso i beneficiarii i crediti erogati.
Così iniziano i guai per 5'000 contadini sardi, che, non avendo disponibilità economiche sufficienti, sono costretti a dichiararsi insolventi o falliti.
La storia di alcuni di loro (quelli che stanno facendo lo sciopero della fame) qui, qui invece più dettagli sulla storia della 44/88, e qui maggiori dettagli sulla loro protesta e la lettera-appello dei contadini.

Mi pare di poterne trarre una sola conclusione: i politici che, per inadempimenti amministrativi, provocano danni a cittadini terzi dovrebbero almeno essere sottoposti ad un processo. Immediatamente. Ignorantia legis non excusat.

mercoledì 3 ottobre 2007

Cicerchia: deliziosa o velenosa?

La Cicerchia (Lathyrus sativus) è una leguminosa da granella che ha la caratteristica di produrre semi anche in condizioni ambientali difficili, nelle quali nessuna altra pianta commestibile sopravviven e tanto meno, fiorisce.
In epoca storica la cicerchia era diffusa in tutta l’area mediterranea, Italia peninsulare compresa, e nell’Italia del Cinquecento e del Seicento compariva anche sulle tavole dei Grandi, come risulta dalle citazioni in importanti testi gastronomici.
Bene, questa di per se potrebbe non essere una cosa molto interessante, e allora perché la sto raccontando? Perché c’è un inghippo: Il mangiare cicerchie in abbondanza o per periodi prolungati può provocare un’intossicazione con disturbi neurologici agli arti inferiori, dapprima funzionali e reversibili, che se non curati possono arrivare alla paralisi spastica degli arti inferiori con l’impossibilità di deambulare!
Solo negli anni Ottanta dell’Ottocento alcuni medici napoletani collegarono casi di paralisi al consumo di cicerchie e per sottolineare questo rapporto venne coniato il termine latirismo, attualmente spesso sostituito da latiriasi, entrambi derivati da lathyrus, il nome latino della cicerchia, per ribadire il nesso causale fra quel cibo ed i disturbi. I casi osservati non riguardavano residenti in Napoli, ma soprattutto contadini abruzzesi.
Da studi eseguiti una ventina d’anni fa si è chiarita l’etiopatogenesi del latirismo. In pratica le cicerchie (cioè i granelli eduli) contengono una sostanza tossica resistente alla cottura, la beta-N-ossalilammino-L-alanina, indicata con l’acronimo BOAA, che è un amminoacido non facente parte delle proteine e che interferisce con i recettori neuronici per l’acido glutammico, provocando degenerazione delle vie corticospinali, con comparsa dapprima di disturbi funzionali e poi di paralisi spastica irreversibile degli arti inferiori
Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento il latirismo era una malattia riportata nei trattati anche se in maniera imprecisa. Poi negli anni Trenta vi furono dei progressi e adesso anche l’Enciclopedia Italiana (Treccani) menziona la cicerchia alla voce “Tossicologia”, tra gli avvelenamenti di origine alimentare da sostanze quasi costantemente tossiche, erroneamente usate come alimenti: es. pesci velenosi in modo permanente; funghi velenosi; semi di ricino; cicuta scambiata per prezzemolo; semi di mandorle amare o di pesche; semi di cicerchia che determinano il latirismo.
Dopo gli anni Cinquanta, invece, la malattia scomparve dai testi di medicina, non perché fosse stato dimostrato che le cicerchie erano ingiustamente accusate, ma perché oramai, essendo divenute un cibo molto raramente consumato in Italia, non si verificavano più intossicazioni.
Purtroppo negli ultimi anni in Italia stiamo assistendo ad un ritorno della cicerchia in uno scenario di recupero di cibi tradizionali. Così la Regione Umbria ha inserito la cicerchia fra i prodotti agro-alimentari tradizionali. In Campania la sua popolarità e diffusione è dimostrata dalle frequenti citazioni sulla stampa quotidiana.
Con questo rinnovato interesse per la cicerchia ed il conseguente aumentato consumo è possibile che prima o poi anche in Italia si abbia la ricomparsa di qualche caso di latirismo, la cosa grave è che siamo del tutto impreparati a tale eventualità. Molti medici e molti laureati in agraria ignorano la tossicità della cicerchia, per non parlare della gente comune.