martedì 11 settembre 2007

Le indecensioni...

Questa non è le recensione di un ristorante dove andare, ma il racconto di un incubo nel quale non entrare. Non serve sapere dov’è accaduto, ma che cosa vi è accaduto, perché ne facciate tesoro e, alle prime avvisaglie, possiate fuggire a gambe levate.

Tal volta un errore all’incrocio può risultare fatale...

Ero in estate con un caro amico, che mi era venuto a trovare nel Comune del campobassano dove risiedevo, e da dove siamo partiti per un viaggio alla ventura, senza mete, nell’Alto Molise. Taccio delle terribili strade interpoderali che abbiamo percorso, fatto sta che, se ad un incrocio avessimo proseguito dritti, avremmo mangiato in un agriturismo che difficilmente avrebbe uguagliato, nel male, il ristorante di fronte al quale, invece, siamo andati a sbattere per quell’errore.

Il ristorante – di cui non faccio il nome - si trovava presso un incrocio, in una posizione che salta talmente all’occhio da prendere per il crampo allo stomaco, e noi ne avevamo: s’era fatto tardi e le curve ci avevano resi impazienti. Si trattava di uno stabile molto ampio, posto al centro di una spianata, dotato di un vasto parcheggio e di un altrettanto ampio spazio per mangiare all’aperto, per lo più sotto una veranda. Una volta entrati, ci accolse una grande sala di forma irregolare con svariate decine di tavoli, del tipo consueto nei ristoranti da cerimonia di second’ordine, dove si consumano comunioni e matrimoni pieni di invitate traccagnotte travestite di fumose reinterpretazioni di abiti imperiali, veri e propri tini addobbati di tende mantovane su tacchi malfermi ed altri complementi del miglior provincialismo (salvo poi scoprire che son molto meglio i contadini vestiti a festa, sinceri e impudichi, con le loro ciabatte indossate a fine pranzo nuziale, piuttosto che l’ipocrita understatement della upper class metropolitana).

L’interno era sobrio e semplice, anche se non mancavano elementi di quella pretesa eleganza che si serve di un’oramai insopportabile citazione da chissà quale idea dell’Antico: una colonna centrale con intonacatura marmorizzata ed applique in ottone dorato dalla foggia baroccheggiante. Questa falsa atmosfera aristocratica, come se entrassi nella casa di un barone, ci prese allo stomaco con un pugno, aggiungendosi al crampo della fame.

Aspettiamo circa cinque minuti per l’acqua (le persone a sedere sono in tutto una quarantina, di cui la maggior parte ad un solo lungo tavolo, ragion per cui sarebbero potuti essere anche più solerti); accade però che avevamo chiesto l’acqua effervescente naturale e invece ci viene portata la S. Cassiano, che è un’acqua naturale. Pazienza, l’accettiamo lo stesso, anche perché era agosto, e del caldo ne avevamo abbastanza.

Scegliamo di provare il menu degustazione di carni (€20), che comprende un buon numero di pietanze, e il vino, un «Contado» 1999 di Di Majo Norante (vitigno Aglianico). Dopo qualche minuto il giovane cameriere ci porta un Aglianico di Mastroberardino, al che faccio notare l’errore e me lo faccio sostituire con quello richiesto (il cameriere gira sui tacchi e ciancica un «vediamo se c’è» che non depone affatto a suo favore). Torna dopo poco, con il vino giusto, finalmente, ma già annegato dentro un cestello per il ghiaccio che per un Aglianico e quasi qualunque altro vino è una morte sicura: il vino si opacizza, il sapore e i sentori si mortificano, il profumo svilisce. Fatto sta che, in una giornata all’insegna della goliardia, non ero in vena di proteste e decido di sorvolare sull’incidente, ma ovviamente, dopo neanche cinque minuti, tolgo la bottiglia dal quel purgatorio di ghiaccio dove scontava peccati non suoi e la poggio sulla tovaglia. Dopo più di mezz’ora avrei dovuto far notare io al cameriere che, datosi il tipo di vino, quel cestello era del tutto inutile e poteva anche essere portato via, invece è rimasto a lungo in nostra compagnia.

Sul tavolo facevano la loro –pessima- figura due paja di bicchieri con forma vagamente a calice, dal gambo tozzo, di dimensioni leggermente diverse; certamente, non un buon segno di premura per il vino; pazienza, dici. Però puzzavano terribilmente di una puzza che potrebbe essere descritta come qualcosa a metà strada fra la muffa e l’odore di un cane dal pelo bagnato. Avremmo potuto farli sostituire, ma la constatazione che tutti e quattro avevano lo stesso difetto e l’osservazione che, nessuno escluso, presentavano evidenti aloni di calcare formatisi in seguito all’asciugatura, ci hanno indotto a ritenere che fossero stati lasciati dentro la lavastoviglie per un bel po’, dove l’acqua si era asciugata formando quelle balze di calcare che notavamo, e avevano preso quell’odore di muffa così fastidioso. Inutile, quindi, chiedere che fossero sostituiti.

E passiamo a ciò che abbiamo mangiato. L’antipasto comprende:

  1. uno scampolo (uno scandalo!) di ventricina corrispondente a ca. un quarto di fetta, addirittura mancante nel piatto del mio amico. In ogni caso il suo sapore ha un caratteristico fondo dolciastro, indice di una maturazione incalzata artificiosamente con qualche additivo chimico in polvere;
  2. una fetta di comune lonzino. Grave, gravissimo che in questa zona, dove si producono ottimi filetti (salami magri), soppressate e ventricine, ci si debba ridurre a comprare un banale, opaco lonzino di chissà quale produttore del Nord;
  3. un comune speck, e vale quanto detto sopra;
  4. comuni sott’olio comprati (e accidenti, a 200 metri da lì c’è un capannone industriale, che ospita un frantoio).

Prosequamur:

  • un anemico, terribile prosciutto;
  • un formaggio senza sapore, odore, senso e speranze, che sarebbe dovuto essere un fresco vaccino.

Dopo questo deludente inizio, ci vennero portati gli assaggi di carne, preparati in bocconcini assolutamente insufficienti per 2 persone. Trovammo nel piatto la situazione che può descrivere chi giunga sul campo poco dopo la conclusione di una battaglia. La carne era tagliata male, i pezzi erano di qualità scadente, pieni di grasso, evidentemente non scelti, ma presi a manate cieche; insipidi, stoppacciosi, pieni di minute scaglie d’osso, infine duri ed alcuni perfino bruciacchiati. Il loro condimento era melenso ed eccessivamente carico di cipolla cotta, evidentemente caricata a bella posta per dare un sapore a ciò che sapido di per sé non era. Alcuni bocconcini erano tutt’osso: una cattiveria gratuita, un atto di tirchieria della peggior specie.

Alla fine non ci vennero cambiati i piatti, ma poiché ci restava da mangiare le bruschette (già sul tavolo da un po’, così nel frattempo erano diventate appena tiepide) questa manchevolezza non ci parve un vero errore. Delle bruschette io penso sempre: ma perché ci mettete su i pezzettini di pomodoro? A che servono? Che senso hanno? Personalmente, la ritengo una moda assai diffusa e senza storia, che non rende giustizia né del pane, né dell’olio, tanto meno del pomodoro; quanto a questo, non sarebbe stato opportuno coglierlo da un orto anziché comprarlo al supermercato? Meglio sarebbe se presentassero il pane abbrustolito con l’olio e, in un piattino a parte, un profumato pomodoro grande e assai maturo, da spaccare a metà (o meglio ancora, già aperto), da strofinare sul pane, il che anche i più sussiegosi potranno giostrare con la forchetta. Questa sarebbe una trovata efficace, soprattutto in una trattoria: la bruschetta, così, è assai, assai più saporita. Me lo insegnarono i contadini, mica cotica. Infatti i pezzettini di pomodoro rimangono sulla superficie del pane (il quale, in quanto abbrustolito, è per di più indurito e quindi ancora più difficile da impregnare), mentre nel secondo caso la strofinatura porta in profondità il suo succo (ciò che conta) e per la stessa pressione esercitata intride la mollica, insaporendola ed amalgamandosi all’olio. In ogni caso l’olio delle bruschette era buono: extravergine d’oliva di sicuro. Almeno questo.

Ci vennero portati i primi, che nel menu degustazione consistevano in un unico piatto ovale con una metà di fettuccine ai funghi e l’altra metà di cavatelli al sugo di cinghiale. Prima nota: io col cinghiale ci provo sempre. Sapevo che in zona ce ne sono, ragion per cui ho voluto sperimentare se per caso questo ristorante si fosse accordato con qualcuno di essi. Non saprei dire se quello fosse cinghiale (d’allevamento) o meno, ma di certo non era animale cacciato: dei minutissimi brandelli di carne condivano dei cavatelli della peggior specie, non solo comprati –anzi che essere fatti in casa-, ma anche di pessimo pastificio. E le fettuccine? Ancora peggio! Di una semola scadente, lisce, sudaticce direi, su cui era stato poggiato un pajo di fette di funghi porcini (di coltura perché l’unico sapore identificabile era come di polvere), col che il cuoco doveva ritenere di aver fatto “fettuccine ai funghi”. Non è sbagliato il piatto, ma la preposizione: bisognerebbe dire fettuccine con funghi porcini, come quando si dice “ho visto Piero con Marco”, ma magari Marco e Piero si odiano. La pietanza non aveva davvero alcun sapore.

Quando ci portano l’insalata, la troviamo già condita. Ebbene, io e Silvio siamo di bocca buona, d’accordo, ma –buon Dio!- se uno di noi due avesse avuto in odio l’aceto o se la mia gastrite fosse stata ulcera avrei dovuto rimandare indietro il piatto e magari pagarlo pure! Ma poiché effettivamente siamo di bocca buona, ce la mangiamo così com’è.

In breve: finimmo di bere il vino, e al momento del conto ci viene offerto un amaro. Fu dolce, a dire il vero; amaro lo era stato tutto il resto. Ce ne andammo sconsolati e spossati, come quando si è provati e vinti da un nemico insormontabile, con la sola soddisfazione di avere bevuto tanto vino da esserci ubriacati. Mi spiego ora perché da quelle parti i vecchi bevano litri di birra ogni giorno: i ristoranti debbono essere molti, e particolarmente scadenti.

Francesco "Chicco" Panzetti

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi spiace per la tua giornataccia, ma il tuo stile è degno di un grande scrittore! Bravo VZRX!