domenica 9 settembre 2007

Cucine regionali: una mitologia moderna

Le cucine regionali raggruppano, per mezzo di confini nati dalla politica, universi gastronomici appartenenti a realtà diverse. Ma le affinità e le differenze nei cibi sono frutto della natura del territorio e dei rapporti culturali fra le popolazioni, che nessuna regione o provincia esprime più

Ogni qual volta pensiamo ad un prodotto alimentare od una ricetta, non possiamo non associarlo ad un territorio che genera l’uno o l’altra. Questo perché per noi un qualsiasi cibo od una pietanza costituiscono il precipitato storico di una comunità, che si esprime attraverso un insieme di caratteri culturali che, pur irriducibili nelle loro molteplici differenze interne, nondimeno percepiamo come unitari.

Non riusciremmo, neanche se volessimo, a separare cucina e territorio. Pertanto, per capire se possiamo parlare di cucine regionali o meno, dobbiamo entrare nel merito della storia delle suddivisioni territoriali.

Il problema sorge, infatti, quando nominiamo un dato territorio, poiché con l’organizzazione di uno Stato spesso si creano divisioni amministrative interne, che tracciano dei confini e incidono sull’identità –percepita dal di dentro o dal di fuori- dei cittadini che ci vivono. In questo modo la mappa mentale dei cibi e delle pietanze viene influenzata dalla politica, in un continuo mutare di spartiacque culturali che caratterizzano le culture millenarie come la nostra.

È notorio che da almeno due secoli la penisola italiana, contesa fra diversi Stati, è stata divisa da province: porzioni di territorio più o meno ampio, di solito create cogliendo dei caratteri culturali unitari, ma anche sovente concepite come luoghi in cui esercitare pressioni sugli Stati confinanti. Le province giunte fino a noi descrivono in realtà aree spesso internamente assai diversificate, senza considerare le differenze culturali che possono esservi riscontrate, e le conseguenze che esse provocano anche al livello di auto identificazione. Molto più saggia era stata la suddivisione dell’Italia in regiones da parte di Augusto, poiché allora era stata rispettata la geografia dei vari popoli italici, molti dei quali a quel tempo erano ancora vivi. Per esempio, da Roma in su, a partire dalla riva destra del Tevere, cominciava la Regio VII, Etruria, poiché era ancora viva, nel ricordo dei Romani, la presenza della grande nemica storica, Veio; ma anche il territorio della Tuscia (attuale provincia di Viterbo) si distingue da quello della campagna romana a sud della capitale, assimilandosi gradualmente al paesaggio maremmano toscano. Il caso campano è probabilmente più complesso, ma sta di fatto che Augusto accorpò quasi tutta l’Irpinia alla Regio II, Apulia; quest’ampia fascia di terra unisce del resto il Tirreno e l’Adriatico da millenni, e molte sono le testimonianze di una storia locale che guarda spesso più al versante orientale che a quello occidentale. Ancora oggi i caratteri culturali del Sannio beneventano e dell’Irpinia (denominazioni risalenti a tribù sabelliche) sono così distinti da quelli della Campania costiera, da creare numerosi problemi d’identità. Tutto l’entroterra del Cilento, invece, fu attribuito alla Regio III, Lucania et Bruttium, perché già da prima dell’arrivo dei Greci i popoli autoctoni mostravano caratteri unitari con quelli della Lucania attuale e della Calabria del Nord. Ancora un esempio è fornito dalla Sabina, ricompresa non nel Latium ma nel Samnium (Regio IV): la Sabina, infatti, era considerata dagli storiografi greci e romani come la terra d’origine dei Sanniti, che se n’erano distaccati compiendo il rito della Primavera Sacra; numerosi elementi archeologici e linguistici confermano questi dati.

Tale coerenza comincia a spezzarsi con le divisioni amministrative successive: per rimanere nell’esempio campano, il Salernitano e il Cilento vengono accomunati nella provincia del Principato, sebbene ancora distinto in Ultra e Citra; la Contea di Molise abbracciava anche buona parte del Beneventano. I cambiamenti culturali non furono indotti soltanto dal sostrato etnico preromano, ovviamente, ma anche dai confini secolari creatisi con la formazione degli Stati preunitari: così la Sabina attuale risultava divisa in una parte occidentale e meridionale appartenente allo Stato della Chiesa, ed in una orientale (Cicolano) appartenente al Regno di Napoli. Queste differenze furono talmente presenti nell’orizzonte culturale delle popolazioni da far sì che, senza creare divari macroscopici, rimangono tuttavia ancor oggi leggibili attraverso numerosi, piccoli indizi, dalle tipologie edilizie rurali alla fonetica dei dialetti. E, ovviamente, anche nella cucina.

Con l’istituzione delle province dopo l’Unità d’Italia, e con i successivi decreti che ne aggiunsero altre nel 1927, si venne a costituire una complessa geografia amministrativa, che oramai aveva dimenticato del tutto le identità culturali precedenti, tanto che quella delle province –e delle Regioni a partire dal 1970- può definirsi una storia delle identità negate, pur avendone affermate –ma artificiosamente- altre.

Bisogna quindi intendersi sul rapporto fra l’identità gastronomica di un territorio, e il nome che attribuiamo a quest’ultimo, dal momento che esso non è generato dalla percezione di quel carattere culturale (e nemmeno di altri), ma soltanto da una lunga storia di confini amministrativi.

Torniamo agli esempi di prima: la cucina della Tuscia può assimilarsi in qualche modo a quella della Sabina, e questa a quella della Ciociaria? L’area fra il Lago di Bolsena, i Monti della Tolfa (Orbetello) e la Maremma ha un territorio talmente diverso da quello delle colline della bassa Sabina o dalle aspre montagne dell’Amatriciano o del Cicolano, da impedire che, se pure gli altri caratteri culturali e storici fossero stati uguali, si sarebbe elaborata una cultura gastronomica simile. Basti pensare alla Fiorentina, che in realtà proviene proprio dalle paludi della Maremma (era il pasto dei bovari), e l’Amatriciana –forse originariamente senza pomodoro-. L’incredibile diversificazione del territorio italiano comporta che ogni unità minima (a sua volta, comunque, un’astrazione) possieda una sua specificità, e questo è ciò che ci rende davvero ricchi agli occhi del mondo; ciascun territorio, quindi, ha terreni diversi, diverse storie, tradizioni colturali e zootecniche, “giacimenti gastronomici”, come li si chiama oggi, ancora una volta non potendo far a meno di una designazione geografica. I fattori materiali, a partire appunto dalla natura del suolo, della distribuzione delle acque e dei microclimi, insieme ai fattori culturali delle aree vicine con cui esistono fitti scambi, determina l’insieme di quel patrimonio straordinario di tradizioni gastronomiche che caratterizza il nostro Paese.

Parlare di cucina campana o lombarda, quindi, è ridicolo, giacché fra Paestum e il Vallo di Diano si ripercuote tutta la differenza esistente fra la Campania stessa e la Lucania; la cucina della bassa lombarda non può essere in alcun modo ricondotta a quella delle sue valli alpine, e così via. Se se ne parla, è perché, da un po’ di tempo a questa parte, l’esplosione del turismo gastronomico ha portato operatori culturali (sic!), cuochi, giornalisti e politici a forzare le maglie di identità territoriali già fortemente nebulose adattandole ai confini regionali; una semplificazione che ha tutto il puzzo di un prodotto di marketing. E giacché si parla oggi di marketing territoriale, quale più facile via si può immaginare per solleticare l’appetito turistico di questo colossale falso storico? Così le fuorvianti etichette si diffondono in ogni dove, entrano nel linguaggio quotidiano e nei menu degli chef, e non presentano più, oramai, un fondamentale aspetto della cultura umana, ma soltanto un’idea di territorio tagliata sulla misura dei miti di crescita e di post-terziarizzazione delle classi politiche. Gran parte delle ricchezze prodotte nel comparto gastronomico è in realtà nient’altro che fumo. Fortunatamente non tutti si sono allineati a quest’ideologia, da SlowFood a numerosi chef che fanno una ricerca vera sulla cucina locale, liberi da condizionamenti, a gruppi, associazioni e riviste.

Di conseguenza, Yogurt si asterrà dalle facili etichette delle cucine regionali, e preferirà analizzare di volta in volta territori tendenzialmente omogenei dal punto di vista gastronomico, cui, per comodità, daremo –è destino- nomi geografici, e, più in generale, il nome di cucine territoriali. Ma non è neanche questo ciò che dovremmo fare. In realtà abbiamo bisogno non di discutere le identità fra le cucine di vari luoghi, ma di concentrarci sulle differenze.

Francesco "Chicco" Panzetti

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