mercoledì 26 settembre 2007

La vita agra...

Tutti i partecipanti al corso per diventare esperti in comunicazione pubblicitaria si siedono in una sala, e due signorine passano offrendo loro dei biscotti da due vassoi differenti: "biscotti magri, prego biscotti magri!", ripete l'una; e l'altra: "biscotti grassi, biscotti al burro". Chi s'ingolla i primi, chi i secondi. Ugo Tognazzi ne prende da entrambe, e, perplesso, li assaggia. A quel punto entra il docente, uno ossuto ed occhialuto, li guarda e dice:
"Voi avete sentito la presenza o l'assenza del burro con le orecchie anziché col palato. I biscotti erano perfettamente uguali! E' su questo principio fondamentale che dovete basare il vostro lavoro futuro. Il pubblico i sapori li deve sentire con la vista, con l'udito, col tatto. Il palato non serve. Non serve il vero burro, il vero grasso, non serve l'uva nel vino. Le sostanze naturali, nell'industria moderna, sono destinate a scomparire. L'importante è che non scompaia nella mente dell'uomo moderno il desiderio di consumare vero vino, vero burro, vero latte. E questo principio vale per tutta la produzione, non solo per quella alimentare".

Da "La vita agra", di Carlo Lizzani (1964) - dall'omonimo romanzo di Luciano Bianciardi (1962)


Per approfondire:
Fondazione Luciano Bianciardi
Luciano Bianciardi, la missione dell'anarchico
Per Luciano Bianciardi, scrittore ed eroe
Una vita agra - biografia di Luciano Bianciardi
Luciano Bianciardi (da www.ilpopolodelblues.com)

giovedì 20 settembre 2007

Perché YogurtZine. Una presentazione in poche forchettate

Non è vero che il mondo va sempre peggio. O meglio è vero in parte. Ma c’è anche un’altra parte che nasce dal basso e si espande a macchia di leopardo, pian pianino e perlopiù in sordina; pensiamo a quella parte che è lontana dai numi tutelari della nostra epoca - profitto&competizione - e dalle grandi retoriche di fine millennio, e che sceglie invece la via delle pratiche sociali e dell'azione concreta quotidiana...Visitate ad esempio www.altraeconomia.it o http://unimondo.oneworld.net: sono alcune delle foglie di quell’albero che continua crescere in un’oasi etica, in un mondo economico per lo più non regolato, selvaggio.
Che cosa centra YOGURTzine con tutto questo? Noi vorremmo parlare di cibo. Di cosa c'è dentro, di cosa c'è prima e dopo, del cibo come nutrimento ma anche come elaborazione culturale e specchio dei mutamenti e della complessità delle società umane. Del cibo e dell’economia, tra processi di produzione, trasformazione e distribuzione…un’economia equa o selvaggia? Quali e quanti i danni inflitti all’uomo ed all’ambiente per mantenere (troppo) ben pasciuta una piccola parte dell’umanità? Le tematiche del cibo incrociano quelle del Diritto, dall’impoverimento dei paesi in via di sviluppo alle dinamiche migratorie alle questioni ecologiche, dalla desertificazione all’emergenza climatica alla carenza di risorse idriche, e ciò implica per tutti noi un irrinunciabile ed irrimandabile imperativo etico.
Il cibo ha, d’altra parte, un ruolo importante nel nostro immaginario: cinema, televisione, fotografia, letteratura, raccontano un certo modo, o meglio molti diversi modi di mangiare, come icona del buon vivere, del vivere con gusto e/o del viver sani…ma fino a che punto è vero lo si può scoprire solo guardando con attenzione nel piatto prelibato, o presunto tale, che ci troviamo davanti.
In fin dei conti, perciò, non è poi così pazzesco se, raccontando la storia dell’amatriciana, si finisca a parlare tanto di sapori, profumi e calorie quanto di diritti, di ambiente o di ineguaglianza sociale: il cibo non è solo una faccenda di gusto e di creatività, ma una porta verso il mondo dell’uomo, con le sue bellezze e i suoi orrori.
Non è vero che il mondo va sempre peggio. È vero solo che il male è più rumoroso; ma il buono, dalla sua, ha di essere contagioso.
Buona lettura.

La redazione di YogurtZine

martedì 18 settembre 2007

Pellone, o il re della pizza

Quando ho visto il risultato del nostro sondaggio sulla migliore pizza fritta a Napoli, non sono rimasto per nulla sorpreso del risultato. La pizzeria "Pellone" ha stravinto conquistato oltre il 50% delle preferenze, battendo anche "Dal presidente", celebre per la sua pizza con i cicoli. Si piazza male "Da Michele" a Forcella, segno di un decadimento ormai cominciato da qualche tempo.

"Pellone" non è una pizzeria come le altre, è un'altra cosa. Chi ha degustato la pizza fritta, ma anche la semplice Margherita, non riuscirà ad apprezzare ugualmente un'altra pizza. Sarebbe davvero difficile descrivere con le sole parole il capolavoro di arte culinaria che quotidianamente esce dai forni di "Pellone".
Potrei parlare degli ingredienti di prima qualità, come la pasta, l'olio e la mozzarella di bufala.
Potrei parlare delle dimensioni della pizza, che spesso ti obbligano a dire "Basta!", poichè la pizza, come si dice a Napoli, è "'a rota 'e carretta" (ovvero "a ruota di carro").
Potrei parlare della gentilezza e dell'onesta di camerieri e pizzaiolo, che ti servono velocemente e non spacciano la mozzarella normale per quella di bufala (come, purtroppo, fanno molti altri).
Potrei anche lodare le qualità della frittura che si può acquistare mentre si aspetta il tavolo, anche quella probabilmente la migliore all'ombra del Vesuvio.

Ma non vi dirò nulla oltre a ciò che è stato scritto sinora. Perchè la qualità della pizza di "Pellone", a tratti taumaturgiche, si possono apprezzare davvero solo recandosi a Via Nazionale a Napoli. Cosa state ancora aspettando?
Giuseppe "GiUfIsK" Fiscariello

sabato 15 settembre 2007

La mattonella all'arancia

La ricetta di questo dolce mi fu data da una mia cara amica, Diva – motivo per cui ai miei amici è nota come “divina mattonella” -, che lo aveva inventato come dolce leggero per un’amica che aveva problemi di linea: la ricetta originale, infatti, prevedeva solo i due tuorli, i mandarini, il pan di spagna fatto col fruttosio ed il fruttosio al posto dello zucchero a velo. Buona, ma un po’ triste… convinta del fatto che sia meglio assaggiare un cucchiaino di un dolce ottimo, piuttosto che una ciotola di surrogato, l’ho adattata a modo mio e l’ho resa un po’ più calorica, ma –diciamocelo- decisamente più gustosa. Fermo restando che potete, naturalmente, farla ritornare una ricetta virtuosa e light a piacere…

Ingredienti:

2 tuorli d'uovo; 8 mandarini o 4 arance; 20 gr di zucchero a velo; un Pan di Spagna o un plum cake vecchio di un paio di giorni; due cucchiai colmi di uva sultanina; 200 gr di cioccolato fondente; biscotti secchi; un bicchierino di amaretto di Saronno.

Mescolare tuorli e zucchero con un frullino fino ad ottenre un composto spumoso e quasi bianco; aggiungere il succo dei mandarini o delle arance e un po' di amaretto. Inzuppare nel composto sottili fette di Pan di Spagna e i biscotti secchi sbriciolati, alternandoli in uno stampo da plumcake; aggiungere fra gli strati scaglie di cioccolata e uvetta lasciata a macerare per un quarto d’ora in un bicchierino di amaretto. Metter a cuocere nel forno già caldo per 20 minuti a 180° e lasciare raffreddare per 2 ore in frigo. Una volta raffreddato, togliere dallo stampo e coprire col cioccolato fondente sciolto a bagnomaria.

martedì 11 settembre 2007

A volo d'uccello... Puglia, una regione di pietra

Giurdignano, menhir


di Francesco Panzetti

Probabilmente, non c’è una regione che, più della Puglia, sia ricordata per le caratteristiche del suo territorio e della sua storia agraria: le Murge e il Tavoliere riescono a penetrare nell’occhio del viaggiatore forse con ancora maggior evidenza delle Dolomiti o delle Alpi lombarde, si rimane spiazzati dalla piattezza del paesaggio e dalla pietrosità implacabile di una pianura dura da mordere con gli aratri e le zappe. Questo paesaggio, in realtà, ha ben poco di naturale, essendo quasi per intero il frutto della faticosissima e secolare opera dell’uomo, che ha guadagnato all’agricoltura circa l’80% degli spazi, ha bonificato grandi estensioni di pianure paludose, ha creato le saline di Margherita di Savoia portando l’acqua marina sulla terra, ha cancellato quasi del tutto gli antichi querceti sostituendoli però con le colture arboree (specialmente con l’ulivo) che oggi sono il nuovo segno emblematico del paesaggio di questa regione.



Trulli

Eppure, ciò che più colpisce della Puglia è senz’altro la pietra: l’aspra pietra sbriciolata nei campi del Tavoliere, delle alte Murge e del Salento; quella del castello di Federico II (monumento perfetto e ineguagliabile alla pietra stessa), e dei Trulli, o del Dolmen di Bisceglie; quella, infine, delle case rupestri nelle lame e quella delle maestose gravine che a decine tagliano i tavolati calcarei delle Alte Murge.
Le scelte attuate dagli uomini per lo sfruttamento del territorio, insieme ai vincoli che il terreno pone al loro lavoro, determina i modi in cui si declinano le forme e gli spazi abitativi e l’Italia è uno straordinario caleidoscopio delle soluzioni dello stare insieme, dalle case a corte della Bassa lombarda e piemontese ai villaggi delle valli alpine, dai borghi dei pescatori fra le aguzze rocce della Liguria e della Campania alle fattorie e cascine dell’Appennino tosco-umbro-marchigiano, e alle masserie dell’Appennino meridionale.

Castel del Monte


Il Foggiano era una landa desolata, per duemila anni almeno regno incontrastato del pascolo: gli armenti giungevano qui dopo aver percorso centinaia di km sulle reti tratturali che dalla Sabina e dall’Abruzzo, attraverso il Molise, giungevano nelle piane della Capitanata; milioni di ovini brucavano rendendo sterile il suolo ma arricchendo le popolazioni di prodotti caseari e di lana. I tratturi, tuttavia, furono soppressi dalla cieca politica economica postunitaria, e così il territorio ha gradualmente mutato forma, fino a diventare nel primo ‘900 un enorme granaio, principe delle colture il grano Senatore Cappelli ed altre varietà del prezioso cereale messe a punto da Nazareno Strampelli.
La geologia condiziona l’uomo in ogni sua attività e quindi è importante osservare come la Puglia si articoli per lo più in gradinate che scendono progressivamente verso il mare: il primo gradino è quello delle Murge (750 - 350 m s.l.m.), dominio del pascolo, con un’agricoltura estensiva e poco diversificata ed una densità di appena 2 ab./kmq. Fra i 350 e i 100 m s.l.m. si estende la Premurgia, regno incontrastato dell’ulivo, del mandorlo e della vite; anche qui l’uomo vive della campagna, ma non nella campagna. Infine, la cimosa pianeggiante che dalle Premurge giunge fino al mare gode dei terreni più fertili, dalla falda acquifera poco profonda che favorisce le intense colture orticole. Chiude il quadro il Salento, monotono, piatto, calcareo, carsico; eppure recentemente la pervicacia dell’uomo ha modellato il Salento popolandolo di olivi, viti e ampie distese di grano, mentre il modello insediamentale è esattamente l’opposto di quello delle Murge: una “frammentopoli” (A. Bissanti) fatta di piccoli «centri sonnacchiosi, tirati a calce, dal sapore vagamente orientale».

Bisceglie, dolmen


QaQuanto al Tarantino, si tratta di una Murgia costituita non da calcari ma da più teneri calcareniti, che ne mitigano l’asprezza anche all’occhio e rendono più facile il lavoro nei campi, pur senza cancellare la sensazione di aridità del paesaggio. L’allevamento è una grande risorsa e l’abbondanza di capi bovini ed equini ha favorito di certo la nascita del singolare fenomeno dei fornelli. È questo il regno delle lame (incisioni carsiche più dolci) e delle gravine (quelle più profonde). Non casualmente, è proprio a cavaliere delle gravine che sono sorti i maggiori centri della zona: Ginosa, Laterza, Massafra, Castellaneta e, in un paesaggio ancora in parte simile, la lucana Matera
Il fatto che la Puglia risulti così chiaramente “tagliata” in gradinate rocciose e dotata di territori dalla natura nettamente diversa, ha determinato storie economiche diverse ed una diversa cultura gastronomica; forse questo spiega anche il singolare fenomeno per cui, già a meno di 20 km dal mare, si può gustare una cucina esclusivamente di terra, centrata con mirabile freschezza e leggerezza sui sapori dell’orto.


Per questo articolo abbiamo usato:

Paola Sereno, Paesaggio come documento, in «Campagna e industria. I segni del lavoro», collana «Capire l’Italia», Touring Club Italiano, Milano 1981

Andrea Bissanti, La Puglia, in «I paesaggi umani», collana «Capire l’Italia», Touring Club Italiano, Milano 1977

EP 445 929: il brevetto di un furto. La Monsanto, l'India, il grano


Nell'India nord-occidentale il frumento, è chiamato "kanak". All’inizio del secolo scorso sir Albert Howard, fondatore con la moglie G.L.C.Howard dell'agricoltura organica moderna, ne contava circa 37 varietà botaniche appartenenti a 10 sottospecie; tale varietà è frutto di secoli di esperienze dei contadini indiani per cercare di adattare le coltivazioni in funzione del gusto, delle capacità nutrizionali, delle diverse condizioni climatiche ed ecologiche. Il risultato di questo lavoro è un grano a bassa elasticità, ideale per la cottura in forno e a basso contenuto di glutine. Così come naturale è stato il processo di selezione delle sementi, naturale è stato anche il secolare scambio di semi fra i coltivatori; ma nello scambio molti semi sono andati a finire in diverse banche di geni internazionali fuori dall’India e, tra l’altro, nelle collezioni appartenenti all’amministrazione agricola degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Europa.
Le multinazionali dell’industria alimentare hanno accesso illimitato alle banche di geni, per cui il gioco è presto fatto: alcuni ricercatori, prima quelli della Unilever poi quelli della Monsanto, mappano il genoma del grano indiano e decidono di brevettarlo come invenzione. Il 3 maggio 1994 col numero 5.308.635, il 9 giugno 1998 col numero 5.763.741 e il 12 gennaio 1999 col numero 5.859.315, negli Stati Uniti vengono rilasciati brevetti per grani che producono impasti a bassa elasticità.
Nel 2003 la Monsanto legalizza il furto anche in Europa: nonostante la legge comunitaria vieti di brevettare piante, il 21 maggio l'Ufficio Europeo per i Brevetti di Monaco ha concesso alla Monsanto il brevetto EP 445929, che copre un grano che presenta una speciale qualità di cottura, derivato da quello indiano.
Il brevetto permette alla Monsanto di avere il completo monopolio di coltivazione, produzione e di trasformazione delle varietà di grano indiano a bassa elasticità; questo significa che i contadini indiani, per continuare a coltivare il grano che i loro stessi progenitori hanno selezionato in modo del tutto naturale, ora devono acquistarne i semi dalla Monsanto, che ne è "legittima" proprietaria. Significa che la fiorentissima industria dei prodotti da forno indiana, un giro d’affari di circa 1.5 milioni di dollari (85.000 forni industriali in tutto il Paese), è nelle mani della Monsanto. Significa anche che il pane tradizionale indiano, il chapattis, è adesso proprietà della Monsanto.
E’il caso di ricordare un monito di sir Albert Howard:

L'attuale condizione dell'agricoltura indiana è l'eredità d'esperienza tramandata per tempo immemorabile da un popolo poco influenzato dai molti cambiamenti di governo del paese. Le attuali pratiche agricole dell'India, per quanto strane e primitive possano apparire alle idee occidentali, meritano rispetto. Il tentativo di migliorare l'agricoltura indiana sulla base di linee occidentali sembra essere sostanzialmente un errore. Quello che ci vuole è, piuttosto, l'applicazione dei metodi scientifici alle condizioni locali, al fine di migliorare l'agricoltura indiana secondo le sue stesse linee.

Era il 1906.

Le indecensioni...

Questa non è le recensione di un ristorante dove andare, ma il racconto di un incubo nel quale non entrare. Non serve sapere dov’è accaduto, ma che cosa vi è accaduto, perché ne facciate tesoro e, alle prime avvisaglie, possiate fuggire a gambe levate.

Tal volta un errore all’incrocio può risultare fatale...

Ero in estate con un caro amico, che mi era venuto a trovare nel Comune del campobassano dove risiedevo, e da dove siamo partiti per un viaggio alla ventura, senza mete, nell’Alto Molise. Taccio delle terribili strade interpoderali che abbiamo percorso, fatto sta che, se ad un incrocio avessimo proseguito dritti, avremmo mangiato in un agriturismo che difficilmente avrebbe uguagliato, nel male, il ristorante di fronte al quale, invece, siamo andati a sbattere per quell’errore.

Il ristorante – di cui non faccio il nome - si trovava presso un incrocio, in una posizione che salta talmente all’occhio da prendere per il crampo allo stomaco, e noi ne avevamo: s’era fatto tardi e le curve ci avevano resi impazienti. Si trattava di uno stabile molto ampio, posto al centro di una spianata, dotato di un vasto parcheggio e di un altrettanto ampio spazio per mangiare all’aperto, per lo più sotto una veranda. Una volta entrati, ci accolse una grande sala di forma irregolare con svariate decine di tavoli, del tipo consueto nei ristoranti da cerimonia di second’ordine, dove si consumano comunioni e matrimoni pieni di invitate traccagnotte travestite di fumose reinterpretazioni di abiti imperiali, veri e propri tini addobbati di tende mantovane su tacchi malfermi ed altri complementi del miglior provincialismo (salvo poi scoprire che son molto meglio i contadini vestiti a festa, sinceri e impudichi, con le loro ciabatte indossate a fine pranzo nuziale, piuttosto che l’ipocrita understatement della upper class metropolitana).

L’interno era sobrio e semplice, anche se non mancavano elementi di quella pretesa eleganza che si serve di un’oramai insopportabile citazione da chissà quale idea dell’Antico: una colonna centrale con intonacatura marmorizzata ed applique in ottone dorato dalla foggia baroccheggiante. Questa falsa atmosfera aristocratica, come se entrassi nella casa di un barone, ci prese allo stomaco con un pugno, aggiungendosi al crampo della fame.

Aspettiamo circa cinque minuti per l’acqua (le persone a sedere sono in tutto una quarantina, di cui la maggior parte ad un solo lungo tavolo, ragion per cui sarebbero potuti essere anche più solerti); accade però che avevamo chiesto l’acqua effervescente naturale e invece ci viene portata la S. Cassiano, che è un’acqua naturale. Pazienza, l’accettiamo lo stesso, anche perché era agosto, e del caldo ne avevamo abbastanza.

Scegliamo di provare il menu degustazione di carni (€20), che comprende un buon numero di pietanze, e il vino, un «Contado» 1999 di Di Majo Norante (vitigno Aglianico). Dopo qualche minuto il giovane cameriere ci porta un Aglianico di Mastroberardino, al che faccio notare l’errore e me lo faccio sostituire con quello richiesto (il cameriere gira sui tacchi e ciancica un «vediamo se c’è» che non depone affatto a suo favore). Torna dopo poco, con il vino giusto, finalmente, ma già annegato dentro un cestello per il ghiaccio che per un Aglianico e quasi qualunque altro vino è una morte sicura: il vino si opacizza, il sapore e i sentori si mortificano, il profumo svilisce. Fatto sta che, in una giornata all’insegna della goliardia, non ero in vena di proteste e decido di sorvolare sull’incidente, ma ovviamente, dopo neanche cinque minuti, tolgo la bottiglia dal quel purgatorio di ghiaccio dove scontava peccati non suoi e la poggio sulla tovaglia. Dopo più di mezz’ora avrei dovuto far notare io al cameriere che, datosi il tipo di vino, quel cestello era del tutto inutile e poteva anche essere portato via, invece è rimasto a lungo in nostra compagnia.

Sul tavolo facevano la loro –pessima- figura due paja di bicchieri con forma vagamente a calice, dal gambo tozzo, di dimensioni leggermente diverse; certamente, non un buon segno di premura per il vino; pazienza, dici. Però puzzavano terribilmente di una puzza che potrebbe essere descritta come qualcosa a metà strada fra la muffa e l’odore di un cane dal pelo bagnato. Avremmo potuto farli sostituire, ma la constatazione che tutti e quattro avevano lo stesso difetto e l’osservazione che, nessuno escluso, presentavano evidenti aloni di calcare formatisi in seguito all’asciugatura, ci hanno indotto a ritenere che fossero stati lasciati dentro la lavastoviglie per un bel po’, dove l’acqua si era asciugata formando quelle balze di calcare che notavamo, e avevano preso quell’odore di muffa così fastidioso. Inutile, quindi, chiedere che fossero sostituiti.

E passiamo a ciò che abbiamo mangiato. L’antipasto comprende:

  1. uno scampolo (uno scandalo!) di ventricina corrispondente a ca. un quarto di fetta, addirittura mancante nel piatto del mio amico. In ogni caso il suo sapore ha un caratteristico fondo dolciastro, indice di una maturazione incalzata artificiosamente con qualche additivo chimico in polvere;
  2. una fetta di comune lonzino. Grave, gravissimo che in questa zona, dove si producono ottimi filetti (salami magri), soppressate e ventricine, ci si debba ridurre a comprare un banale, opaco lonzino di chissà quale produttore del Nord;
  3. un comune speck, e vale quanto detto sopra;
  4. comuni sott’olio comprati (e accidenti, a 200 metri da lì c’è un capannone industriale, che ospita un frantoio).

Prosequamur:

  • un anemico, terribile prosciutto;
  • un formaggio senza sapore, odore, senso e speranze, che sarebbe dovuto essere un fresco vaccino.

Dopo questo deludente inizio, ci vennero portati gli assaggi di carne, preparati in bocconcini assolutamente insufficienti per 2 persone. Trovammo nel piatto la situazione che può descrivere chi giunga sul campo poco dopo la conclusione di una battaglia. La carne era tagliata male, i pezzi erano di qualità scadente, pieni di grasso, evidentemente non scelti, ma presi a manate cieche; insipidi, stoppacciosi, pieni di minute scaglie d’osso, infine duri ed alcuni perfino bruciacchiati. Il loro condimento era melenso ed eccessivamente carico di cipolla cotta, evidentemente caricata a bella posta per dare un sapore a ciò che sapido di per sé non era. Alcuni bocconcini erano tutt’osso: una cattiveria gratuita, un atto di tirchieria della peggior specie.

Alla fine non ci vennero cambiati i piatti, ma poiché ci restava da mangiare le bruschette (già sul tavolo da un po’, così nel frattempo erano diventate appena tiepide) questa manchevolezza non ci parve un vero errore. Delle bruschette io penso sempre: ma perché ci mettete su i pezzettini di pomodoro? A che servono? Che senso hanno? Personalmente, la ritengo una moda assai diffusa e senza storia, che non rende giustizia né del pane, né dell’olio, tanto meno del pomodoro; quanto a questo, non sarebbe stato opportuno coglierlo da un orto anziché comprarlo al supermercato? Meglio sarebbe se presentassero il pane abbrustolito con l’olio e, in un piattino a parte, un profumato pomodoro grande e assai maturo, da spaccare a metà (o meglio ancora, già aperto), da strofinare sul pane, il che anche i più sussiegosi potranno giostrare con la forchetta. Questa sarebbe una trovata efficace, soprattutto in una trattoria: la bruschetta, così, è assai, assai più saporita. Me lo insegnarono i contadini, mica cotica. Infatti i pezzettini di pomodoro rimangono sulla superficie del pane (il quale, in quanto abbrustolito, è per di più indurito e quindi ancora più difficile da impregnare), mentre nel secondo caso la strofinatura porta in profondità il suo succo (ciò che conta) e per la stessa pressione esercitata intride la mollica, insaporendola ed amalgamandosi all’olio. In ogni caso l’olio delle bruschette era buono: extravergine d’oliva di sicuro. Almeno questo.

Ci vennero portati i primi, che nel menu degustazione consistevano in un unico piatto ovale con una metà di fettuccine ai funghi e l’altra metà di cavatelli al sugo di cinghiale. Prima nota: io col cinghiale ci provo sempre. Sapevo che in zona ce ne sono, ragion per cui ho voluto sperimentare se per caso questo ristorante si fosse accordato con qualcuno di essi. Non saprei dire se quello fosse cinghiale (d’allevamento) o meno, ma di certo non era animale cacciato: dei minutissimi brandelli di carne condivano dei cavatelli della peggior specie, non solo comprati –anzi che essere fatti in casa-, ma anche di pessimo pastificio. E le fettuccine? Ancora peggio! Di una semola scadente, lisce, sudaticce direi, su cui era stato poggiato un pajo di fette di funghi porcini (di coltura perché l’unico sapore identificabile era come di polvere), col che il cuoco doveva ritenere di aver fatto “fettuccine ai funghi”. Non è sbagliato il piatto, ma la preposizione: bisognerebbe dire fettuccine con funghi porcini, come quando si dice “ho visto Piero con Marco”, ma magari Marco e Piero si odiano. La pietanza non aveva davvero alcun sapore.

Quando ci portano l’insalata, la troviamo già condita. Ebbene, io e Silvio siamo di bocca buona, d’accordo, ma –buon Dio!- se uno di noi due avesse avuto in odio l’aceto o se la mia gastrite fosse stata ulcera avrei dovuto rimandare indietro il piatto e magari pagarlo pure! Ma poiché effettivamente siamo di bocca buona, ce la mangiamo così com’è.

In breve: finimmo di bere il vino, e al momento del conto ci viene offerto un amaro. Fu dolce, a dire il vero; amaro lo era stato tutto il resto. Ce ne andammo sconsolati e spossati, come quando si è provati e vinti da un nemico insormontabile, con la sola soddisfazione di avere bevuto tanto vino da esserci ubriacati. Mi spiego ora perché da quelle parti i vecchi bevano litri di birra ogni giorno: i ristoranti debbono essere molti, e particolarmente scadenti.

Francesco "Chicco" Panzetti

La storia della Spiga

Ma perché mai bisognerebbe occuparsi della storia del grano nelle società umane, ovvero della storia dell’uomo attraverso le vicende del grano? La risposta, a dire il vero, può essere lapidaria: perché senza il grano non saremmo qui a porci questa domanda. Benché saremmo sopravvissuti lo stesso anche senza, si può essere certi che in tal caso, probabilmente, il mondo somiglierebbe ancora a quello del Mesolitico, o di un’eterna ed embrionale alba della civiltà.

Nella Fertile Mezzaluna, in un’area che comprende la pianura mesopotamica, parte della Siria e della Palestina, le società umane compiono un salto dalla raccolta delle piante selvatiche al loro domesticamento; e questo avviene in un preciso momento storico (all’incirca il 15'000 a. C.), determinato dalle forme politiche che quelle stesse società hanno, dalle loro conoscenze tecniche e dallo sviluppo del linguaggio rispetto ai periodi interglaciali precedenti. Benché all’inizio coltivare fosse più duro che raccogliere o cacciare, le madri, non dovendo più spostarsi, conseguirono al contempo sia una diminuzione della mortalità infantile, sia un più diretto controllo sulle fonti alimentari; probabilmente i cambiamenti iniziali ricaddero anche sull’allevamento, di cui sembra che si siano sfruttati ora anche il latte e la lana. Comincia così la “rivoluzione neolitica”, ovvero la nascita dell’agricoltura. Ma per quanto essa sia importante in sé, tutto quello che è seguito è passato essenzialmente attraverso la coltivazione dei cereali, e in particolar modo del grano; pertanto ripercorrere la sua storia significa ripercorrere la storia dell’umanità stessa, e capire perché ancora oggi esso sia tanto importante, e valga la pena di difenderlo dai numerosi pericoli che minacciano questo patrimonio inestimabile dell’umanità.

Insieme all’epocale scelta di vivere stanzialmente anziché nomadicamente, l’altra conquista è stata la lenta opera di selezione operata dall’uomo sulle varietà coltivate, al fine di ottenere piante più resistenti (le spighe non debbono staccarsi facilmente dallo stelo) e dai semi nudi, cioè non coperti dalle glumette, le sottili pellicole che avvolgono ciascuna cariosside (o chicco); esse, infatti, sono indigeribili e risultano difficili da separare, per cui all’inizio, nelle prime varietà sfruttate, il grano doveva essere arrostito sul fuoco, poi cotto fino a formare una pappetta, oppure doveva essere macinato, mescolato con l’acqua e quindi cotto in un forno. Così, da una necessità nasce forse il pane.

I cereali, a differenza della gran parte delle altre piante alimentari, erano anche facilmente immagazzinabili per lunghi periodi, ovviamente a condizione di essere tenuti all’asciutto e al riparo da insetti e roditori. Questo ha permesso di farli diventare un mezzo si scambio, facendo in particolar modo del grano una delle prime forme di denaro della storia dell’umanità. Secondo Dénise Schmandt-Besserat [1] (Univ. di Austin, Texas), la scrittura sumerica –che è la più antica finora attestata- non sarebbe nata nel IV mill. a. C. come scrittura cuneiforme, ma sarebbe stata preceduta per almeno 5'000 anni da un sistema di computo costituito da piccoli contrassegni di argilla che simboleggiavano i beni secondo unità di misura standard, e che verso il 3'500 a. C. sarebbero stati inseriti in bullae di creta, sorta di sfere cave riempite degli stessi contrassegni, ma con simboli ripetuti anche fuori come forma di garanzia, ad accompagnamento dei beni stessi. Il grano e le altre derrate, se conservate, risultano ingombranti, le macine sono pesanti, e tutto ciò spinge le comunità a divenire stanziali. Inoltre, il passaggio dalla raccolta alla produzione implica l’emergere del concetto di proprietà, e quindi anche l’esposizione al furto e alla rapina; questo spinge gli abitanti a costruire i primi villaggi permanenti [2] e a fortificarli con alte mura, opere immani per l’epoca [3] che a loro volta presuppongono notevole volontà politica e capacità organizzativa.

Il graduale sviluppo di questo sistema portò nel IV mill. a. C. alla nascita delle città, o, si potrebbe dire, al sorgere stesso delle entità statali; dell’urbanizzazione furono certamente presupposti materiali la tesaurizzazione degli alimenti presso i templi sumerici e lo sviluppo del commercio delle eccedenze, nonché la formazione di lavoratori specialisti; con gli specialisti si separa la produzione dalla trasformazione, nascono le gerarchie lavorative, le prospettive di carriera. A loro volta, la moltiplicazione delle attività stimola fortemente la produzione di manufatti in ceramica (con l’invenzione di tegami e padelle, cioè di un nuovo modo di cucinare, di nuovi sapori) e di utensili in metallo. Tutti fattori che hanno prodotto la concentrazione delle ricchezze nelle mani di poche persone determinando un notevole mutamento nelle forme politiche. Ma poiché aumenta il commercio, vi è anche la necessità di trasportare i prodotti a sempre maggior distanza; per questo, nelle tavolette cuneiformi di Uruk, già in quel periodo compaiono disegni di carri con le ruote (più o meno contemporaneamente all’invenzione dell’aratro). Lo sviluppo tecnologico riceve per la prima volta una spinta da quello del mercato, e, per inciso, i Sumeri trasformano per la prima volta al mondo il territorio naturale con la costruzione di canali di irrigazione ed irregimentazione delle acque del Tigri e dell’Eufrate. Questo è il motivo per cui ci occuperemo spesso di archeologia del paesaggio.

Fine della prima puntata

Francesco "Chicco" Panzetti

Note

[1] Pagina personale: storia della scrittura sumerica (Wikipedia)

[2] P. es. Gerico, sorta intorno al 9'000 a. C. intorno ad una ricca sorgente

[3] A Gerico, per una popolazione di circa 1'500 persone, furono mobilitate oltre 10'000 tonnellate di pietre per l’edificazione del muro di cinta.


Per questo articolo abbiamo usato:

Mario Liverani, Antico Oriente. Storia società economia; ed. Laterza, Roma 1988

Michael Roaf (a cura di), Atlante della Mesopotamia e dell’antico Vicino Oriente; Ist. Geografico De Agostini, Novara 1992


Sopra, un'immagine tratta da www.scattando.it - Copyright degli aventi diritto

lunedì 10 settembre 2007

La Caprese: dolce serendipità...



Nonostante si tratti probabilmente di uno dei dolci più celebri ed apprezzati della pasticceria napoletana, la Torta Caprese, molto diffusa, oltre che a Capri, nella Penisola Sorrentina e in Costiera Amalfitana, avrebbe in realtà origini piuttosto recenti. Secondo la vulgata, riportata da Cecilia Coppola in "Zeppole, struffoli e chiffon rosso", sarebbe stata creata, assolutamente per caso, negli anni '20 del secolo scorso dal cuoco Carmine Di Fiore. Si racconta che il Di Fiore stesse preparando una torta alle mandorle per tre malavitosi americani giunti a Capri per acquistare una partita di
ghette per il boss dei boss, Al Capone. Il cuoco dimenticò di aggiungere la farina nell'impasto: questo errore, che avrebbe potuto costargli caro, fu invece la sua fortuna, poiché la torta riuscì talmente buona che gli americani pretesero di avere la ricetta e di lì a poco Di Fiore prese a produrre la torta con regolarità, ottenendo subito grande successo. Leggendo in vari testi di cucina e vagando sul web emerge un dato: non esistono due ricette uguali della caprese neanche a pagarle. Al di là dei dosaggi di zucchero, uova e cioccolato, la differenza sostanziale è proprio la presenza della farina. Le ricette più accreditate, comunque, non contemplano né farina né lievito, ed il motivo è semplice: la caprese perfetta – l'idea platonica di caprese, oserei – ha un cuore morbidissimo ed umido, quasi sciolto, risultato che la presenza della farina non consentirebbe. Con questa ricetta, invece, dovreste ottenerlo senza problemi.



Ingredienti
300 g di mandorle non pelate, 150 g di burro, 200 g di zucchero, 5 uova, 1 bustina di vanillina, 150 g di cioccolato fondente (preferibilmente 80% di cacao minimo), un bicchierino di liquore dolce.

Tritare le mandorle, facendo in modo che una metà sia ridotta in farina ed un'altra in granella più grossolana: è importantissimo che abbiano la pellicina, poiché è proprio quest'ultima che dà struttura al dolce. Sciogliere il cioccolato fondente a bagnomaria con un po’ di burro. Unire in una terrina lo zucchero, il burro (fuso a fuoco dolce, conferisce grande morbidezza alla torta. attenzione, inoltre, a non farlo fumare: assume un pessimo sapore ed è anche cancerogeno), i tuorli, un bicchierino di liquore dolce (ottimo l'amaretto di Saronno, anche se non filologico) e la bustina di vanillina. Montare gli albumi a neve. Unire il tutto, incorporando per ultimi gli albumi a neve, e cuocere in forno preriscaldato a 180° per 30- 40 minuti (controllare con uno stecchino; le variazioni di tempo dipendono anche dalla grandezza del forno).
Una volta nel forno, la torta tenderà a gonfiarsi, per poi sgonfiarsi di colpo: niente panico, è un movimento fisiologico che non compromette assolutamente né la consistenza né il sapore del dolce. Servire cosparsa di zucchero a velo, magari accompagnandola con un buon passito.

Della caprese esiste anche una versione più recente, la caprese bianca: la ricetta è identica, solo che si usa il cioccolato bianco al posto di quello fondente (ottimi risultati con quello aromatizzato alla vaniglia, targato Lindt) ed il limoncello nel ruolo del liquore dolce.
Serena "Sissi" Venditto

Sopra, un'immagine tratta da apemaia.wordpress.com - Copyright degli aventi diritto

domenica 9 settembre 2007

O' Rraù


Il termine francese ragout si traduce in stufato o spezzatino di carne ed ha la stessa radice di ragoutant, che significa appetitoso; dall’incontro con il pomodoro il ragout francese è diventato ragù, il noto condimento per la pasta presente in tutta la tradizione gastronomica italiana.
La preparazione del ragù varia a seconda delle regioni fondamentalmente in funzione di due aspetti: il tipo di carne utilizzata, se macinata o in pezzi interi, ed i tempi di cottura, dalle due ore di alcuni ragù col macinato, ai due giorni di certi ragù napoletani.
O’ rraù, come è noto, ha nella tradizione culinaria partenopea un ruolo fortemente simbolico: è stato (ed in certi casi lo è ancora) il rituale irrinunciabile del pranzo domenicale, la pietanza sacra intorno alla quale si riunisce la famiglia allargata; emblema dello slow food, considerato il lungo tempo necessario a cucinarlo e (soprattutto!) a digerirlo, o’rraù è uno, nessuno e centomila, tante quante sono le varianti presenti nelle diverse ricette che si ricavano dalla tradizione scritta e orale.
Partiamo dalle certezze… gli ingredienti fondamentali del ragù napoletano sono: carne in pezzi interi, pomodoro, condimento (sugna o olio), cipolle, vino, sale e pepe; è altrettanto certo che deve cuocere per molte ore e che deve risultarne un sugo morbido, di colore rosso scuro, con cui condire pasta corta, preferibilmente ziti spezzati, ma anche paccheri o lasagne.
Salvo questi pochi punti fermi, tante sono le ricette del vero ragù napoletano quante sono le nonne, le mamme e le zie addette alla preparazione del pranzo domenicale: dalla scelta degli ingredienti alle tecniche utilizzate nei passaggi più critici della preparazione, a Napoli si può discutere per ore su qual è il modo migliore per cucinare o’ rraù come si deve.
La prima volta che l’ho cucinato ho seguito le istruzioni che ho trovato su un ricettario tradizionale, apportando qualche variazione perché non ho potuto reperire la conserva di pomodoro, che non è il pomodoro imbottigliato in casa ma è un concentrato ristrettissimo che si faceva asciugando al sole succo di pomodoro salato.
Nonostante i diversi e contraddittori suggerimenti ricevuti da cuoche più anziane e più esperte, ho continuato a preparare il ragù sempre nello stesso modo perché, in definitiva, ciascuno fa il suo ragù…ciò di cui veramente non si può fare a meno, che le cipolle siano rosse o bianche e che si usi la sugna o l’olio d’oliva, sono una ferma pazienza ed una calda passione.

Ricetta del ragù (variazioni da una ricetta di Vittorio Gleijeses, A Napoli si mangia così, La Botteguccia, Napoli)

Ingredienti per 6-8 persone
girello di manzo 1 kg
cipolle gr. 350
concentrato di pomodoro gr. 600
olio extravergine di oliva gr. 200
gallinelle di maiale o tracchiulelle 6
vino rosso di Gragnano ¼ di litro

Innanzitutto bisogna legare il pezzo di manzo, eventualmente contornandolo con piccole trance di pancetta; bisogna poi mettere l’olio, le cipolle tritate, il manzo e le tracchiulelle in una pentola piuttosto larga ed alta e porla su un fuoco medio.
La carne deve chiudersi , ovvero formare una crosta scura, mentre le cipolle devono appassire senza bruciare; per ottenere questo risultato bisogna restare inchiodati al fornello, sempre pronti a bagnare il contenuto della pentola con due dita di vino appena sembra che possa bruciare.
Le cipolle si devono consumare, cioè quasi scomparire e, quando la carne sarà diventata di un bel colore marroncino tutt’intorno, bisogna toglierla dalla pentola ed aggiungere gradualmente il concentrato, amalgamandolo bene col fondo di cottura della carne; non appena il sugo sta per attaccarsi al fondo, bisogna aggiungere un po’ di vino o, se fosse terminato, un po’ d’acqua.
La fase finora descritta comporta circa tre ore di lavoro.
Una volta amalgamato il concentrato di pomodoro, bisogna rimettere la carne nella pentola e aggiungere acqua fino a coprirla, salare e pepare.
Posto un coperchio sulla pentola senza chiuderla del tutto, in modo che resti un piccolo sfiatatoio, non appena il sugo avrà preso a bollire bisogna mettere il fuoco al minimo in modo che il ragù possa pippiare, ovvero bollire in maniera molto lieve ma costante (il verbo è onomatopeico e può aiutare a capire che tipo di suono deve produrre il bollore del ragù).
Solo adesso ci si può allontanare dalla pentola, stando però sempre attenti a controllare che il sugo non si attacchi sul fondo.
La carne deve essere molto cotta ma non quanto il ragù: quando le tracchie cominceranno a staccarsi dall’osso dovranno essere tolte dal sugo, così come il girello quando potrà essere facilmente penetrato con una forchetta.
È opportuno cominciare la preparazione del ragù dalla sera precedente: dopo una notte di riposo può continuare a pipiare per alcune ore della mattina successiva, finché non si ottiene un sugo di un colore rosso scuro che va nel marrone.

Col sugo si possono condire ziti spezzati, paccheri, rigatoni ma anche cannelloni e lasagne, mentre la carne farà da secondo accompagnata, come vuole la tradizione, da friarielli saltati crudi in padella con aglio, olio e peperoncino.
Rosaria "fungo" Bisceglia

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Cucine regionali: una mitologia moderna

Le cucine regionali raggruppano, per mezzo di confini nati dalla politica, universi gastronomici appartenenti a realtà diverse. Ma le affinità e le differenze nei cibi sono frutto della natura del territorio e dei rapporti culturali fra le popolazioni, che nessuna regione o provincia esprime più

Ogni qual volta pensiamo ad un prodotto alimentare od una ricetta, non possiamo non associarlo ad un territorio che genera l’uno o l’altra. Questo perché per noi un qualsiasi cibo od una pietanza costituiscono il precipitato storico di una comunità, che si esprime attraverso un insieme di caratteri culturali che, pur irriducibili nelle loro molteplici differenze interne, nondimeno percepiamo come unitari.

Non riusciremmo, neanche se volessimo, a separare cucina e territorio. Pertanto, per capire se possiamo parlare di cucine regionali o meno, dobbiamo entrare nel merito della storia delle suddivisioni territoriali.

Il problema sorge, infatti, quando nominiamo un dato territorio, poiché con l’organizzazione di uno Stato spesso si creano divisioni amministrative interne, che tracciano dei confini e incidono sull’identità –percepita dal di dentro o dal di fuori- dei cittadini che ci vivono. In questo modo la mappa mentale dei cibi e delle pietanze viene influenzata dalla politica, in un continuo mutare di spartiacque culturali che caratterizzano le culture millenarie come la nostra.

È notorio che da almeno due secoli la penisola italiana, contesa fra diversi Stati, è stata divisa da province: porzioni di territorio più o meno ampio, di solito create cogliendo dei caratteri culturali unitari, ma anche sovente concepite come luoghi in cui esercitare pressioni sugli Stati confinanti. Le province giunte fino a noi descrivono in realtà aree spesso internamente assai diversificate, senza considerare le differenze culturali che possono esservi riscontrate, e le conseguenze che esse provocano anche al livello di auto identificazione. Molto più saggia era stata la suddivisione dell’Italia in regiones da parte di Augusto, poiché allora era stata rispettata la geografia dei vari popoli italici, molti dei quali a quel tempo erano ancora vivi. Per esempio, da Roma in su, a partire dalla riva destra del Tevere, cominciava la Regio VII, Etruria, poiché era ancora viva, nel ricordo dei Romani, la presenza della grande nemica storica, Veio; ma anche il territorio della Tuscia (attuale provincia di Viterbo) si distingue da quello della campagna romana a sud della capitale, assimilandosi gradualmente al paesaggio maremmano toscano. Il caso campano è probabilmente più complesso, ma sta di fatto che Augusto accorpò quasi tutta l’Irpinia alla Regio II, Apulia; quest’ampia fascia di terra unisce del resto il Tirreno e l’Adriatico da millenni, e molte sono le testimonianze di una storia locale che guarda spesso più al versante orientale che a quello occidentale. Ancora oggi i caratteri culturali del Sannio beneventano e dell’Irpinia (denominazioni risalenti a tribù sabelliche) sono così distinti da quelli della Campania costiera, da creare numerosi problemi d’identità. Tutto l’entroterra del Cilento, invece, fu attribuito alla Regio III, Lucania et Bruttium, perché già da prima dell’arrivo dei Greci i popoli autoctoni mostravano caratteri unitari con quelli della Lucania attuale e della Calabria del Nord. Ancora un esempio è fornito dalla Sabina, ricompresa non nel Latium ma nel Samnium (Regio IV): la Sabina, infatti, era considerata dagli storiografi greci e romani come la terra d’origine dei Sanniti, che se n’erano distaccati compiendo il rito della Primavera Sacra; numerosi elementi archeologici e linguistici confermano questi dati.

Tale coerenza comincia a spezzarsi con le divisioni amministrative successive: per rimanere nell’esempio campano, il Salernitano e il Cilento vengono accomunati nella provincia del Principato, sebbene ancora distinto in Ultra e Citra; la Contea di Molise abbracciava anche buona parte del Beneventano. I cambiamenti culturali non furono indotti soltanto dal sostrato etnico preromano, ovviamente, ma anche dai confini secolari creatisi con la formazione degli Stati preunitari: così la Sabina attuale risultava divisa in una parte occidentale e meridionale appartenente allo Stato della Chiesa, ed in una orientale (Cicolano) appartenente al Regno di Napoli. Queste differenze furono talmente presenti nell’orizzonte culturale delle popolazioni da far sì che, senza creare divari macroscopici, rimangono tuttavia ancor oggi leggibili attraverso numerosi, piccoli indizi, dalle tipologie edilizie rurali alla fonetica dei dialetti. E, ovviamente, anche nella cucina.

Con l’istituzione delle province dopo l’Unità d’Italia, e con i successivi decreti che ne aggiunsero altre nel 1927, si venne a costituire una complessa geografia amministrativa, che oramai aveva dimenticato del tutto le identità culturali precedenti, tanto che quella delle province –e delle Regioni a partire dal 1970- può definirsi una storia delle identità negate, pur avendone affermate –ma artificiosamente- altre.

Bisogna quindi intendersi sul rapporto fra l’identità gastronomica di un territorio, e il nome che attribuiamo a quest’ultimo, dal momento che esso non è generato dalla percezione di quel carattere culturale (e nemmeno di altri), ma soltanto da una lunga storia di confini amministrativi.

Torniamo agli esempi di prima: la cucina della Tuscia può assimilarsi in qualche modo a quella della Sabina, e questa a quella della Ciociaria? L’area fra il Lago di Bolsena, i Monti della Tolfa (Orbetello) e la Maremma ha un territorio talmente diverso da quello delle colline della bassa Sabina o dalle aspre montagne dell’Amatriciano o del Cicolano, da impedire che, se pure gli altri caratteri culturali e storici fossero stati uguali, si sarebbe elaborata una cultura gastronomica simile. Basti pensare alla Fiorentina, che in realtà proviene proprio dalle paludi della Maremma (era il pasto dei bovari), e l’Amatriciana –forse originariamente senza pomodoro-. L’incredibile diversificazione del territorio italiano comporta che ogni unità minima (a sua volta, comunque, un’astrazione) possieda una sua specificità, e questo è ciò che ci rende davvero ricchi agli occhi del mondo; ciascun territorio, quindi, ha terreni diversi, diverse storie, tradizioni colturali e zootecniche, “giacimenti gastronomici”, come li si chiama oggi, ancora una volta non potendo far a meno di una designazione geografica. I fattori materiali, a partire appunto dalla natura del suolo, della distribuzione delle acque e dei microclimi, insieme ai fattori culturali delle aree vicine con cui esistono fitti scambi, determina l’insieme di quel patrimonio straordinario di tradizioni gastronomiche che caratterizza il nostro Paese.

Parlare di cucina campana o lombarda, quindi, è ridicolo, giacché fra Paestum e il Vallo di Diano si ripercuote tutta la differenza esistente fra la Campania stessa e la Lucania; la cucina della bassa lombarda non può essere in alcun modo ricondotta a quella delle sue valli alpine, e così via. Se se ne parla, è perché, da un po’ di tempo a questa parte, l’esplosione del turismo gastronomico ha portato operatori culturali (sic!), cuochi, giornalisti e politici a forzare le maglie di identità territoriali già fortemente nebulose adattandole ai confini regionali; una semplificazione che ha tutto il puzzo di un prodotto di marketing. E giacché si parla oggi di marketing territoriale, quale più facile via si può immaginare per solleticare l’appetito turistico di questo colossale falso storico? Così le fuorvianti etichette si diffondono in ogni dove, entrano nel linguaggio quotidiano e nei menu degli chef, e non presentano più, oramai, un fondamentale aspetto della cultura umana, ma soltanto un’idea di territorio tagliata sulla misura dei miti di crescita e di post-terziarizzazione delle classi politiche. Gran parte delle ricchezze prodotte nel comparto gastronomico è in realtà nient’altro che fumo. Fortunatamente non tutti si sono allineati a quest’ideologia, da SlowFood a numerosi chef che fanno una ricerca vera sulla cucina locale, liberi da condizionamenti, a gruppi, associazioni e riviste.

Di conseguenza, Yogurt si asterrà dalle facili etichette delle cucine regionali, e preferirà analizzare di volta in volta territori tendenzialmente omogenei dal punto di vista gastronomico, cui, per comodità, daremo –è destino- nomi geografici, e, più in generale, il nome di cucine territoriali. Ma non è neanche questo ciò che dovremmo fare. In realtà abbiamo bisogno non di discutere le identità fra le cucine di vari luoghi, ma di concentrarci sulle differenze.

Francesco "Chicco" Panzetti